«Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio» ebbe modo di dire Umberto Veronesi. Di fronte al dolore, spesso innocente, come quello dei bambini, è difficile provare a dare spiegazioni comprensibili dalla ragione umana. La medicina può spiegare le cause dei sintomi con cui la malattia si manifesta, ma non è possibile spiegare la modalità con cui un virus colpisce. O perché il fragile corpo di un bambino è martoriato dalla proliferazione di maligne cellule tumorali, che stanno avendo la meglio su di lui e sul suo organismo. Attoniti, stiamo a guardare, curiamo e speriamo di poter guarire, se possibile, qualcuno di questi, consapevoli, però, che non sempre si potrà uscirne vincitori.
È inevitabile rimanere attoniti, vinti e annichiliti di fronte alla consapevolezza che, nonostante il genio umano sia ogni giorno in cerca di nuove soluzioni, potrà trovare sempre un ostacolo che non riuscirà a superare. E che magari avrà una dimensione oltre modo piccola, come un virus, o un batterio, ma può mettere ko anche per sempre uomini grandi e grossi, e perfettamente sani. Fino a quel momento.
Ma quella proposta dal professore non è l’unica risposta possibile. C’è chi, testimone di uno dei più grandi genocidi della storia (la Shoah) ed uscendone vivo, nella memoria di quello che è stato si è trovato a dire di aver litigato con Dio, ma non di aver mai “divorziato” da lui.
«In verità, per l’ebreo che io sono, Auschwitz rappresenta una tragedia umana ma anche – e soprattutto – uno scandalo teologico. Per me è un fatto innegabile: è impossibile accettare Auschwitz con Dio né senza Dio. Ma allora come comprendere il Suo silenzio?». Elie Wiesel – perché è di lui che stiamo parlando – arriva addirittura a parlare di Dio come “assassino”. Un’espressione senza dubbio forte, particolarmente se pensiamo che esce dalla bocca di un ebreo, a cui non è consentito neppure pronunciare il nome di Dio. Forse, proprio per questo, la sua è una fede vera, sofferta, autentica. Solo un sentimento vero e forte, infatti, si può permettere di litigare così pervicacemente con Dio da insultarlo.
Fino a trovare pace, nella presenza di Dio, proprio dove mai vorremmo che fosse, come nel dolore innocente di un bimbo che muore per l’egoismo e la violenza della cattiveria umana:«Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo. La realtà è che la vera paura dell’uomo, quella con la p maiuscola, non è propriamente la morte. La vera paura, quella che attanaglia il cuore, che paralizza la volontà, che lascia atterriti è un’altra: quella di morire da soli. Tanto che ricordo il racconto di due amici, uno ateo ed uno credente; quando l’ateo era ormai prossimo alla morte, l’altro gli domandò se avesse fede in Dio, l’ateo rispose che si fidava dell’amico. Come a dire che, di fronte all’incapacità od impossibilità di credere in un Dio, l’uomo può accontentarsi di una mano amica, pur di evitare la solitudine di fronte al momento estremo di culmine della propria vita terrena.
All’approssimarsi della morte, diviene inevitabile cercare l’unità con le persone più care, un sorriso amico, uno sguardo, una mano da stringere. Ecco che quindi, quando guardi in faccia la morte, diventa automatico cercare aiuto, silenziosamente, in un amico. Faraaz poteva salvarsi. Perché Faraaz era musulmano e alla richiesta di citare il Corano non ha avuto problemi a farlo, perché per lui era pane quotidiano. Era un bengalese benestante, così come gli attentatori che si sono presi la sua vita. Faraaz ha scelto di non abbandonare le sue amiche, vestite in modo proibito e senza la sua conoscenza del Corano. Era ricco, studioso, intelligente, di valore riconosciuto anche sul lavoro: non ci si poteva che aspettare fama e successo, da un giovane tanto promettente. Non fosse che per un dettaglio. Ai suoi occhi, l’amicizia è valsa più della vita. Musulmano, sì, ma capace di rendere vero il Vangelo, coi fatti: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Ormai, il mondo non è più limitato da confini come una volta. Internet, la possibilità di viaggiare in modo veloce e relativamente economico tramite gli aerei, le nostre città ormai multietniche hanno ristretto il mondo. Chiunque ha amici con colore della pelle diversa, etnia diversa, usi e costumi diversi, provenienti da paesi diversi.
Anch’io, ad esempio, ho un amico di origine iraniana: non sopporterei che alcuno lo infangasse, per alcun motivo e, quando ce n’è stato bisogno, ci siamo sempre supportati a vicenda. Dopo la vicenda di Charlie Hebdo, è stato lui la prima persona che ho voluto chiamare, per avere un’idea con cui confrontarmi, perché non riuscivo proprio a concepire per quale motivo colpire, in quel modo, la sede di un giornale. Era tutto così insensato da lasciarmi senza parole, mentre avevo bisogno di un punto da cui far partire la mia riflessione. Ho voluto ascoltare cosa ne pensava, ascoltare la sua opinione senza replicare nulla. Forse ne è risultata una telefonata piuttosto strana, ma in quel momento avevo bisogno solo di ascoltare e meditarci su, in autonomia, non tramite dialettica. Forse siamo molto diversi, ma la stima ed il rispetto hanno sempre fatto sì che potessimo comprenderci, rimanendo noi stessi. Persone così sono quelle che più mi mettono in discussione, perché possono apportare una ricchezza umana che va al di là della fede e con cui credo sia opportuno che ogni cristiano si confronti sempre, per evitare il rischio di sviluppare pregiudizi, basati sull’illusione che l’appartenenza ad una religione basti, da sola, a garantire l’integrità o il valore di un uomo.
Auschwitz e Dacca: la banalità del male non conosce tempo né spazio. Dagli anni ’40 ai giorni nostri, non abbiamo ancora imparato ad “amarci come fratelli”; anzi, pare proprio che non abbiamo conservato alcuna memoria di ciò che è stato, di cui fruire per trarne un insegnamento per il nostro presente ed il nostro avvenire. Oggi succede come sotto i totalitarismi che hanno scosso l’Europa. Ancora si può morire innocenti, per la prevaricazione di qualcuno che si sente in diritto di decidere delle sorti altrui. Ancora la sopraffazione si fa strada tra gli innocenti, incapaci di difendersi di fronte alla prepotenza di una violenza che vuole espandere un terrore più grande dei nostri sogni.
In realtà, anche se con gli occhi annebbiati di lacrime e rabbia, è difficile accettarlo, ma Dio, che era sulla forca col bambino ad Auschwitz, era con Faraaz e abitava il suo gesto di generoso entusiasmo, in quel delirio bengalese che ha messo ragazzi senza scrupoli contro il coraggio dell’amicizia dimostrato da questo giovane che, con la sua determinazione, ha saputo dare la risposta più bella alla miseria del terrorismo.
Perché Dio è la Ragione che spiega anche l’irragionevole: siamo noi che fatichiamo a comprenderla e dobbiamo attendere il giorno in cui tutto sarà più chiaro, per poter vedere in modo luminoso gli avvenimenti cui assistiamo.
Riferimenti:
La Stampa, l’eroe e il carnefice: destini incrociati
Dacca: mio fratello Faraaz è morto per salvare le sue amiche