Storia di quella volta in cui l’Apostolo Paolo, per eccesso di prolissità, fece rischiare la vita ad un Eutico. Era il primo giorno dopo il sabato – domenica, diremmo noi – e Paolo si prolungò nella propria spiegazione, forse anche perché richiesto dai presenti: come negare infatti che, quando si ascolta qualcuno che sa interessare l’uditorio, è bello ascoltarlo, anche a lungo, e ci si dimentica di guardare l’orologio? Per chi, però, magari viene dai campi o da un altro lavoro faticoso, la stanchezza fisica può comunque avere il sopravvento, come avviene al ragazzo, che, complice la ressa, deve aver scelto di sedersi sul davanzale della finestra, cadendo dal terzo piano del palazzo. Alla luce di questo, si fa più evidente perché si caldeggi di non superare gli otto/dodici minuti, nell’omelia!
Battute a parte, l’episodio è in realtà grave e concitato: Paolo si precipita al piano terreno, lo abbraccia, ormai morto, ma lo rialza, riportandolo in vita. Solo allora, ritornano alla liturgia e spezzano il pane. Un episodio molto significativo, che sottolinea come, per il cristiano la liturgia non è solo uno spazio sacro, ma richiede di diventare paradigma della vita. La vera liturgia si costituisce, al contempo, del cibarsi di Cristo, nella Parola e nella Carne, ma anche nel diventare – effettivamente – corpo di Cristo con il quale agire, concretamente, nella quotidiana, per affrettare il Regno di Dio sulla terra.
L’epistola, strettamente legata al Vangelo, sottolinea la dignità, ma anche la responsabilità sacerdotale, che discende direttamente dal legame con Cristo, senza il quale perde ogni significato. Un sacerdote – ebbe modo di ripetere tante volte, nel corso della sua vita, don Carlo Calori – non si salva, se non con le anime che salva. A sottolineare la “cordata” di santificazione, di cui è chiesto di farsi promotore, con l’obiettivo, però, di condurre a Cristo, vero Pastore e vero Maestro.
«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 31): questa garanzia d’unità, proclamata da Gesù, è offerta, anche oggi, a noi. E dovrebbe essere la vera garanzia d’amore, eterno e intramontabile: «l’uomo trova se stesso nel mezzo, nell’abbraccio e nel bacio del Padre e del Figlio, cioè nello Spirito Santo». Quando Gesù ci parla della Trinità, è sempre perché ci invita ad entrare in questa comunione d’amore, per tramandare, a nostra volta, comunione, tra coloro che incontriamo. Perché l’uomo potrà trovare la pace vera, solo mettendosi alla scuola della trinità, dove ciascuno vive per l’altro, con l’altro, nell’altro, in un vortice in cui il potere dominante è quello dell’amore che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1Cor 13).
Eppure, è proprio questo il motivo dello scandalo, per cui, poco più avanti, i farisei prenderanno delle pietre, con l’esplicita volontà di lapidarlo, spiegando: “non ti condanniamo per un’opera buona, ma perché ti fai come Dio” (Gv 10,33). e, in realtà, a ben pensare, è – ancora oggi – il vero motivo delle perplessità di chi guarda con sospetto al rabbi di Nazareth, come ben sottolinea C. S. Lewis:
Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo – allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito. (C.S. Lewis, Scusi… Qual è il suo Dio?, GBU, Roma, 1993, pp. 75-76)
Fare una scelta di campo per Cristo è sempre compromettente, perché richiede non di fare affidamento a delle parole, bensì credere in una Persona, anche e soprattutto quando le circostanze della vita ci urlano l’insensatezza del nostro peregrinare.
(Rif. letture festive ambrosiane nella IV Domenica di Pasqua)
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