Usciranno dalla cattedrale come escono le macchine dalla concessionaria: vestiti a festa, vezzeggiati da applausi scroscianti, contornati da occhi increduli, anche un po’ straniti. Entrati ch’erano proprietà-privata delle loro famiglie – delle loro parrocchie – escono che non sono più di nessuno: saranno di tutti. Otto ragazzi, a Padova, vengono consacrati oggi sacerdoti per mano del vescovo. È strana, la faccenda dell’ordinazione sacerdotale di un uomo: il miracolo della sequela – l’andare dietro a Cristo con la sola armatura della propria storia – è ancor oggi una sfida folle. Quando accade è un miracolo da far battere il cuore, stordire i sensi: è un’iradiddìo di meraviglia. Anche di rischio: «Sei certo che ne siano degni?» chiede il vescovo quando glieli presentano per essere consacrati. Ciò che esce dalle labbra del rettore del seminario è un misto di imbarazzo e di umiltà: «Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano e secondo il giudizio di coloro che ne hanno curato la formazione, posso attestare che ne sono degni». Il che, badate bene, non è dire: “Dicono siano quelli giusti. Si dice in giro che vadano bene. Ho sentito che funzionano”. È un affare più nobile: è stare un passo indietro rispetto alla fantasia di Dio. La Grazia – con buona pace di chi amerebbe solo il bianco-nero – è il festival delle sfumature: tentare anche solo di misurarla è mettere in conto di ustionarsi. Di rubare il posto a Dio. Ciò che di costoro si potrà dire, senza mentire volendo mentire, è che, scrutandoli all’opera, in piccolissimi dettagli pare proprio ci sia una chiamata-in-corso.
È fuori dalla concessionaria, però, che la macchina mostra il suo valore: nel salone-vetrina tutte le macchine sono belle, come di notte qualsiasi donna è bella. Nella cattedrale sono tutti bellissimi: da domattina, però, sarà la strada a dare loro le giuste misure. Nessuno sconto sarà riservato loro, in-primis dal Dio che li ha ingolositi col suo amore, ingelosendosi di loro: le chiamate divine, da quando esistono, non prevedono addestramenti, esigono lo sbaraglio. Che non è un improvvisarsi preti per conto proprio, ma accettare d’andare al largo dove il Vento li sbatterà, a farsi-mangiare al posto di Dio, a fare le veci-di-Dio, che è tutt’altra cosa dal volersi sentire Dio. Guardateli, i preti: sono gente qualunque, le loro sono storie nude, certi hanno anime contorte come ulivi secolari. Eppure sono gente-immensa, anche per il solo fatto di dover aiutare la gente a credere a cose sorprendenti, esagerate: che Il Regno di Dio è già iniziato. Un’impresa di quelle da far tremare i polsi anche solo a pensarla, figurarsi a realizzarla. Resa ancor più azzardata per la povertà degli strumenti che avranno, che abbiamo, a disposizione: la nostra storia, trasfusa in quella di Dio. Saranno guai per chi si scorderà d’essere uomo prima che prete: l’unico dogma che i poveri conoscono è la carne. Carne tribolata, incidentata, carne vergine: «La castità perpetua: nei volti stanchi e scavati di alcuni preti ho visto occhi di adolescente» (F. Mauriac).
L’ammaestramento – nella stagione della formazione – suona perentorio, mai è mutato: “Imparate un metodo, starete in piedi nelle burrasche!”. Imparare ciò che già tutti sanno: il solo metodo per essere un buon prete è quello di seguire il Vangelo. Chi accetterà d’andare per strada – c’è anche chi sceglierà di starsene dentro il concessionario, e il Cielo rispetterà la libertà – calcoli la variabile dell’incidente: a metter mano al fango, capita d’infangarsi. Infangati, neanche allora sarà la fine, per chi tenterà di rialzarsi: basterà ricordare dove sta il volto di Cristo, come fu per Pietro in fase di annegamento. Si voltò dalla parte giusta: l’Amico, salvandolo, lo ingigantì in umanità.
Al resto, ci pensa la gente che, quando incontra un buon prete, è disposta a giurare che non somiglia affatto ad un prete. Da quel poco che ci capisco di Lui, Dio si capovolgerà dalle risate.