gioia e tristezza

Gioia e Tristezza, due stati d’animo agli antipodi. Non possono coesistere nello stesso istante, va contro la loro stessa natura. Giusto?
E invece no, è sbagliato.
Nel film di animazione Inside Out ci viene data una piccola spiegazione. Gioia, abituata ad essere la regina indiscussa delle cinque emozioni primarie, dopo svariate peripezie comprende che non può essere sempre in primo piano ed impara a farsi da parte. Cede il passo a Tristezza, permettendole di esprimersi in totale libertà: solo così la piccola Riley può esternare ai genitori il proprio malessere e chiedere di essere aiutata e consolata. 
Personaggi e spettatori apprendono un’importante lezione: la propria fragilità emotiva non è qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere a tutti i costi, bensì qualcosa da accettare perché è il solo modo crescere e di voltare pagina.
È proprio per questo che, qualche giorno fa, dinanzi ad un post motivazionale – la procrastinatrice seriale che è in me ha talvolta bisogno di una sana tirata d’orecchi – ho udito risuonare un campanello d’allarme. La storia si può riassumere brevemente così:

Una giovane, stanca e frustrata a causa di molteplici delusioni, dichiarò alla madre di voler issare bandiera bianca, smettendo di lottare per i propri sogni. Il genitore, senza dire parola, mise a bollire dell’acqua in tre pentolini. Nel primo aggiunse delle carote, nel secondo delle uova, nell’ultimo del caffè. Spiegò poi che l’acqua bollente rappresentava le avversità della vita, i tre contenuti differenti i nostri modi diversi di reagire ad esse. Ci si può rammollire, come le carote, ci si può imprigionare in un guscio, come l’uovo, oppure si può dare il meglio di sé trasformando l’acqua in una bevanda fantastica come il caffè.

Senza voler sminuire chi ha creato questa storiella, la mia risposta ad un racconto del genere è una sola: NO.
Siamo esseri umani. Imperfetti, casinisti, più o meno capaci… dalle mille e più sfaccettature.
Ma soprattutto siamo fragili e bisognosi l’uno dell’altro, poiché nessuno si salva da solo.
Queste storie motivazionali, invece, anche se spesso sono un interessante spunto di riflessione, talvolta hanno l’enorme difetto di puntare il dito contro tutti quei momenti in cui ci sentiamo più traballanti di un budino. A forza di mettersi a bordo pista e urlare “non arrenderti, puoi farcela, continua!” si rischia di colpevolizzare chi arranca, chi decide di rallentare il passo o chi si ritira dalla competizione.
E invece abbiamo bisogno delle nostre fragilità.
Abbiamo bisogno di diventare cedevoli, a volte. Anziché “tenere duro”, imparare a “tenere morbido”, come quelle tanto vituperate carote. Solo così possiamo plasmarci un po’ meglio, come l’argilla a cui si dà forma solo se tenera. Solo così possiamo permettere a chi ci ama di aiutarci.
Abbiamo bisogno di costruire un nostro guscio, a volte. Come quello di un uovo, ma anche come quello di una chiocciola: qualcosa che ci faccia sentire al sicuro, che ci permetta di riordinare idee, propositi e stati d’animo. Un posto per riprendere fiato, prima di tirare nuovamente fuori le antenne e rituffarci nella quotidianità.
Non possiamo, infine, essere sempre e solo caffè – che poi: in un pentolino? Ogni moka nel mondo sta protestando a dovere! – non possiamo cioè essere sempre super nell’affrontare ogni avversità. È normale desiderare d’essere sempre al top, ma siamo fatti di sogni, speranze, ambizioni, vittorie e sconfitte, lacrime e sorrisi, non di acciaio inossidabile.
Impariamo a trattarci come preziosi reperti di cui prenderci cura, anche accettando le crepe che ci contraddistinguono.

 

Fonte immagine: DIsney Pixar

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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