PortaAutobus

E’ un’esplosione di porte quella che sta sbocciando in questi giorni d’inizio Giubileo: da quella della cattedrale di Bangui – cuore pulsante dell’Africa scorticata – passando per quella solenne della basilica di Pietro, fino all’ultima porta di una chiesetta sperduta in qualche terra dimenticata o foresta. La porta, per rendere simpatico e più percepibile un Dio che, uomo di Galilea come tutti, un giorno disse di Se dicendo di una porta: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Perché, dunque, tacere quest’immane possibilità di raccontare al mondo che c’è un Dio “a disposizione” per ciascuna creatura che sta zigzagando sotto il cielo?
L’universo intero appare dunque come un mondo di porte aperte, una terra dalle porte aperte. Un anfiteatro di umani irriducibili e reietti di fronte ai quali Dio, come un amante smemorato, continua a porgere la possibilità di una porta aperta, quella di casa sua: nonostante tutto, proprio per quel “tutto”, alla faccia di qualsiasi calcolo. Fino quasi a pensare, a furia di vedersi spalancare le porte, che nessuno, alla fine di tutto, rimarrà fuori dalla porta. C’è un’immagine che mi balena poderosa in questi giorni ed è quella del giorno nel quale si chiuderà il Giubileo: il 20 novembre 2016, la domenica nella quale la Chiesa contempla Cristo Re dell’Universo. Apertosi nel nome della Madre – l’otto dicembre, l’Immacolata – calerà il sipario nel nome del Figlio, Re dell’Universo. Quel giorno, tra Madre e Figlio sarà facile ipotizzare una domanda, la più feriale delle domande: “ Qualcuno è rimasto fuori?” Lo si dice quando sta per iniziare una festa, un saluto, un’adunanza, un qualcosa d’importante. Lo dirà Dio, perché il suo sogno è che nessuna casa rimanga senza la festa del cuore. Tutti salvi, dunque? Questo, neppure Cristo lo può sapere. Ciò che a Lui preme è di aver fatto incontrare a tutti la possibilità della salvezza: l’incognita di uno sguardo, l’agguato di una ferita, lo stupore di un incontro inatteso, forse anche insperato. Dopo l’annuncio, Dio si metterà ad attendere, ad aspettare il giorno, a spiare le traiettorie, a rinnovare le sue imboscate: dopo quel giorno, Dio aspetterà un minimo cenno, forse anche una crepa, per poter rendere storia concreta l’annuncio proclamato. In quest’anno l’ansia divina abita proprio qui: nella voglia matta che nessuno abbia la sensazione d’essere costretto a rimanere fuori.
Sarà la soglia di quella porta a fare la differenza tra vivere e morire, tra Cristo e Lucifero, tra sperare e disperare: oltrepassarla sarà come entrare nelle logiche di Dio, condividerne la follia delle risurrezioni, diventare un tutt’uno con il suo strazio di Padre-che-attende. Oltre quella porta c’è Dio-in-attesa. Con discrezione, con un’amabile dolcezza al cui cospetto impallidisce ogni qualsiasi cuore amante: non oltrepassa la soglia, non viola la libertà. Si sporge tutto in avanti, con le braccia, quasi a voler andare il più vicino possibile a chi s’avvicina: i piedi, però, non li muove. Rimangono dalla sua parte: come di chi salva uno che sta per affogare sporgendosi a più non posso verso il fiume, ma rimanendo ben piantato sulla terraferma. Di qui Lui che allunga le braccia, dall’altra parte Lei, la Donna Nazarena: con i piedi nel fango, raccatta i perduti, ne riaccende la speranza, li aiuta ad avvicinarsi alla porta. Lui e lei, lei e Lui: loro e gli altri. Una porta a doppio transito: perché chi-è-fuori possa entrare, chi-è-dentro si ricordi di uscire per far entrare. Solo la porta rimane dove sta, a rendere transitabile il muro: solo Cristo rimane quando tutto sembra relativo. Tutto il resto è gente che va, gente che viene: la vita. La vita in una porta, la più misera. Anche la più feriale, quella di un tram che apre le porte alla fermata. Se il male è devastante nella sua ingordigia, anche l’annuncio di bene dev’essere devastante nella sua ardita follia di salvezza.

(da Il Mattino di Padova, 20 dicembre 2015)

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