L’incubo, in questi giorni di festa para-olimpica, pare a tanti quello d’andare a stanare l’aggettivo che possa rendere al meglio la grandezza di una persona come Alex Zanardi. I soliti – che son anche i più belli, i più veri quando vengono posizionati accanto a gente come lui – falliscono nel raccontare l’emozione che nasce all’apparizione delle sue gesta: senza uguali, unico, divino, straordinario, inconsueto, mostruoso, struggente, appassionante. Il 15 settembre del 2001, il suo personale 11-settembre, padre Phil, che cura le anime dei piloti di Formula Cart, raccolse dalla macchina distrutta un po’ di olio e organizzò sul posto una vera e propria estrema unzione: gliela impartì. Lo diedero per morto, lo videro risorto, lo confusero con un mezzo-dio. Eppure – a dar fede a ciò che scrisse di lui Candido Cannavò nel suo “E li chiamano disabili” – «Zanardi è un testimonial prezioso non del Miracolo, ma di questo patrimonio terreno».
Per raccontare i miracoli, gli aggettivi possono anche servire, bastare. Per narrare questo patrimonio terreno qual’è l’umano che-si-rialza, gli aggettivi corrono il forte pericolo di diventare roba melliflua, patetica, dannosa. Perché di Zanardi sono una vastità le cose che si potrebbero celebrare. Non di sicuro, tra queste, l’uso sfrenato degli aggettivi o di una vita al limite del racconto: per fare questo, basta e avanza, c’è già la sua epopea sportiva a parlare. A colpire, tolto tutto il superfluo delle parole, è quella faccia da eterno attore, da bambino ancor capace di stupirsi e commuoversi, l’espressione tenera che porta in giro e che – in questo intravedo quel “patrimonio terreno” celebrato dal poeta Cannavò – è il vero guadagno di tutta la sua esistenza. Di quella sua vereconda bellezza che ama custodire anonima fin quasi all’ossessione. Ditegli quant’è immenso, quanti lo inseguono, fategli credere che senza di lui lo sport, domattina, crollerebbe: il suo stato d’animo non cambierebbe di una virgola. Anzi, forse s’infastidirebbe assai. Raccontategli di coloro che, anche solo vedendolo vivere con quella innata e sudata ironia, han trovato la forza di vivere e vedrete che cosa fa di un fuoriclasse un uomo: la convinzione d’esser stato materia per nuove rinascite.
Lui è perfettamente conscio d’aver sfiorato l’impossibile, d’aver costretto la NASA a rimettere mano a certi parametri, di riuscire a fare cose ch’erano difficili anche solo da immaginare. Eppure – a vederlo vivere più che a sentirlo parlare – pare che tutto questo sia la cosa più normale: come se alzarsi domani senza più due gambe e reinventarsi la vita fosse il gesto più spontaneo, la prima idea che ti s’affaccia dopo la disgrazia. Siccome per lui lo è, allora capisci che la sua più grande impresa è quella d’aver mostrato all’uomo di cosa è capace quando decide di prendere sul serio la propria vita: «Tante persone credono di aver già dato tutto – ha detto con l’oro della cronometro al collo -, invece non hanno ancora tirato fuori il loro vero potenziale. Per riuscire a farlo bisogna dedicarsi a qualcosa per cui proviamo passione». La passione: che è anche sofferenza, tormento, rinascita. Non solo euforia, poesia, batticuore: lo diventa nella misura in cui accetta d’andare a confrontarsi col mestiere-di-vivere. Ch’è sempre duro.
Viva Zanardi, dunque! Viva anche tutti quelli che, alla faccia di tanti, alla fine ce l’hanno fatta: a vincere un cancro, a diventare madre, a rialzarsi dopo aver perduto il lavoro. A gestire una crisi, a riparare un guasto, a ricucire uno strappo. A fare di un’idea il virus più indomabile: quello che ti fa stare sveglio la notte, eccitato in pieno giorno, indomito nella lusinga di non-cedere. E’ l’Italia nascosta nelle gesta di Zanardi, che un giorno han candidato persino alla carica di senatore-a-vita. Lui, garbato, ha declinato l’invito: per mostrare come uscire da una crisi, non serve una poltrona. Basta una carrozzina. Non chiamateli eroi: s’incazzerebbero. Nemmeno disabili, però: sono i più umani tra gli umani.
(da Il Mattino di Padova, 18 settembre 2016)