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Come scrutare una storia anticipata in un abbraccio. Nel giro di una manciata d’ore, due abbracci sono saliti alla ribalta della cronaca in quest’ultima settimana: quello nato spontaneo tra Francesco e Benedetto XVI e quello formalmente dovuto tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Ad accomunarli più di qualche somiglianza: il presente – della Chiesa e dell’Italia – accanto al passato, la memoria di ciò ch’è accaduto e il futuro di ciò che potrà accadere, l’incontro tra due uomini di potere e di rappresentanza. Non da ultimo quel pugno di secondi ch’è durato quell’abbraccio: poco più di nulla, per dire con la plasticità di un gesto ciò che sarebbe stato ardito per qualsiasi pittore o artista.
Due Papi che s’incrociano: la memoria di ciò ch’è stato e il presente di ciò che è, con addosso quella divina occupazione e preoccupazione d’intravedere ciò che sarà. In quell’avvicinarsi di Francesco (ancora una volta in barba ai rigidi protocolli) e in quel nobile togliersi lo zucchetto bianco di Benedetto è racchiusa la storia da tanti definita la più ambiziosa e paradossale: quella cristiana, per l’appunto. Dove a contare non è solo dove l’uomo potrà un giorno giungere, ma prima ancora fare memoria del dove l’uomo è partito: delle sue origini, del suo albero genealogico, della sua stirpe. Francesco è il presente, Benedetto è il passato, d’Iddio sarà il futuro: forse per questo sotto il Cielo il domani si costruisce nel presente tenendo accesa la memoria del passato, delle origini. Due anziani condottieri: uno sul monte a pregare, l’altro nella vallata a combattere. Insieme, senz’acrimonia o disprezzo: forti del passato e capaci di futuro. Di visioni, di sogni, di rischi azzardati per narrare la fedeltà ai Vangeli. Il tutto nella brevità di un abbraccio: semplice, scarno, tipico di chi non s’accontenta del banale ma s’ostina a dare la caccia all’essenziale. Ai gesti che anticipano e oltrepassano le parole: “L’amore e l’arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò che grazie al loro abbraccio diventa bello” (K. Kraus).
Due premier che s’incontrano ma non s’abbracciano: certe offese non feriscono e certi sorrisi non rallegrano. Una mano sull’altra non dice nulla. Eppur lì, in quell’abbraccio mancato, scorre il destino ardito di un’intera nazione: delicato, impercettibile, finissimo. Indecifrabile: forse per questo il presente avrebbe bisogno del passato per tentare di organizzare il futuro. E il passato avrebbe bisogno del presente per essere memoria di una storia condivisa, democratica, esemplare. “Forse è stato meglio così” – dirà qualcuno: senza ipocrisia, al netto della sincerità, scevri di simpatia reciproca. O forse no, perché istituzionalmente quell’abbraccio serviva: alla trepidazione del popolo, all’angoscia del presente, alla tensione che comprime i giorni. La verità – forse anche quella politica – ama i tempi lunghi: dell’attesa, del dibattito, della contrapposizione. Senza un anticipo di simpatia, però, risulta ostica qualsiasi forma di comprensione della storia e di trasformazione del presente. Fallito l’abbraccio, è rimasta la campanella: quella che dà inizio alle lezioni. Ma anche quella che decreta che il tempo a disposizione è finito: questione di prospettive.
Due anziani s’abbracciano. Seppur diversi si vanno cercando, sostenendo, incoraggiando: la storia della salvezza è sempre sinfonia e mai un assolo, l’Eterno salva sempre un popolo e mai un singolo. Nel contempo due giovani s’ignorano: anche la storia di un paese è storia d’alleanza e di collaborazione, di sinergia e di vedute d’insieme. D’immagini che rendono molto più di mille parole. La storia di quaggiù la scrivono i vincitori: quella cristiana rimane l’unica storia scritta da dei perdenti capitanati da un Perdente Crocifisso. Una storia scritta con gli abbracci più che con il brusio delle parole: heri, hodie et semper.

(da Il Mattino di Padova, 2 marzo 2014)

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