burundiDonne di frontiera: come sentinelle fedeli sulle mura di un città, capaci di tutto pur di non lasciarla cadere nelle mani di un nemico. Che, stavolta, non tiene il nome di un popolo, di un’appartenenza o di una religione, ma trattiene l’intima sua essenza: il Male. Quel male che – stando alle celebre definizione datagli da Hannah Arendt quando analizzò il caso Eichmann – rimane sempre banale: spaventoso, indicibile, inimmaginabile. Il Burundi è tra i cinque paesi più poveri del mondo, campano con meno di un dollaro al giorno. Vivono dei frutti che riescono a strappare alla terra: arachidi, patate, riso, tè, caffè. Sopratutto banane. Uno stato che è anche una pagina di storia: sulle sue colline si fecero a pezzi a colpi di machete hutu e tutsi. Assieme a bufali, giraffe, zebre, ippopotami, leoni e scimmie. Sterminati pure loro, dagli incendi o dagli uomini: lo sterminio della bellezza fu devastante. Totale, inconciliabile a qualsiasi logica.

Sterminate pure loro: Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernardetta Boggian. Tre donne, tre suore e una sola presenza: quella di un Cristo che chiede di rendere umano ed ospitale anche l’ultimo anfratto disperso d’umanità. La frontiera non va addomesticata: significherebbe prenderla e chiuderla in un laboratorio per poterla ricostruire. Tutt’altro: la frontiera va abitata, vissuta, partecipata e condivisa. E’ una terra di nessuno che chiede d’essere bonificata, resa fertile, lavorata. Per questo erano scese quelle tre donne. Scese da quel Nord che usa i mari come muri – quando i mari sono stati per unire -, le città come enclave, la legge come scudo. Escono dalla loro terra, che è poi come uscire dalla loro logica: non appartengono più a loro stesse, persino del loro vagare non sono più padrone. Divengono raminghe per amore, per passione, per l’uomo. Quello stesso uomo che, talvolta, diviene il loro carnefice. Chi parte per la frontiera mette in conto di poter anche non tornare: per intraprendere certi viaggi – i viaggi che s’addentrano nell’abisso della storia – occorre sapere che un giorno si potrà anche non rincasare. Lo sanno così bene che quella coscienza diviene la loro fisionomia riconoscibile, sin quasi imbarazzante e fastidiosa. Ad accompagnarle e spingerle in quel loro donarsi senza sosta, senza calcoli e senz’armi è solo l’amore per Cristo. Fino all’assurdo: felici di perdere la vita per non perdere l’appuntamento con la Bellezza.
Oggi la loro morte ai più appare come un enigma, forse anche come un paradigma, che è l’esatto opposto: che al massimo male possibile si possa rispondere solamente col massimo bene inimmaginabile. Il tutto della malvagità contro il tutto della bontà: certe guerre sono totali, inclusive, finali. Ad estremo male, estremo rimedio. Fino a cogliere in punto di morte il peso di un contrappasso: a morire violentate sono donne che hanno fatto voto di castità, a morire ricche di martirio sono donne che hanno promesso la povertà più assoluta, a morire disobbedendo alla logica del male sono donne che hanno fatto voto di obbedienza al bene. La castità è del corpo, l’obbedienza è del cuore come la povertà lo è delle gesta, cioè delle mani e dello sguardo. Che è poi un tutt’uno, incomprensibile quando lo si scompone: si è di Cristo, punto e a capo. Olga, Lucia e Bernardetta sono morte alla periferia del mondo, sepolte laddove morte le ha colte: quasi un’ultima profezia, che ognuno muore come e dove ha vissuto. Chi le ha ammazzate ha corrisposto appieno alla banalità del male: «Il convento era costruito sulla sua terra» – ha confessato il killer dopo essere stato arrestato. Ha ammazzato per una questione di proprietà. Ha ammazzato donne ch’erano proprietà del Cielo: cioè proprietà di nessuno, a disposizione di tutti. Ancora una volta la morte s’è fatta cogliere impreparata.

(da Il Mattino di Padova, 14 settembre 2014)

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