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C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzino con la passione per la musica. Ma, al contrario degli strumenti principalmente usati dai suoi conterranei, per lo più a fiato, il suo entusiasmo si accendeva in particolare per il ritmo dei tamburi. La sua famiglia non era ricca, ma suo padre aveva talento a riutilizzare gli scarti di materiale per costruire nuovi oggetti e, in questo modo, riuscì a fabbricare un tamburo per il figlio, cui aggiunse una cinghia, affinché potesse suonarlo dovunque volesse. Gli ci volle parecchio tempo, vi perse il sonno, ma,  alla fine, la sorpresa riuscì: gli occhi sgranati in un moto di grata sorpresa furono, per il genitore, la ricompensa più bella ai suoi sforzi! Inutile aggiungere  che, preso dall’entusiasmo, il ragazzo iniziò ad esercitarsi con passione in ogni luogo e situazione, più e meno opportuni, suscitando qualche invidia e fastidio, ma divenendo anche famoso, in tutta la zona, come “il tamburino di Betlemme”.

 

Era una notte fredda, ma illuminata dalla luce di una stella più luminosa del consueto, quando, nei pressi, il tamburino vide spargersi, a macchia d’olio, un insolito trambusto. Tanti dormivano ancora della grossa e, per questo, non si accorsero di nulla. Un raggio di luce di quella stella, però, filtrando da una fessura della tenda (rottasi il giorno prima, perché il ragazzino l’aveva tirata con troppa forza, nel tentativo di disincastrarla), lo aveva destato, proprio nel cuore della notte. Salito sopra ad una sedia, si era affacciato a guardare. L’umidità, che aveva appannato il vetro, aveva reso necessario muovere la mano sulla superficie, per poter visualizzare qualcosa. All’esterno, vide gente correre, dai campi vicini, con il gregge al seguito, in un brusio intenso ed indistinto di voci sommesse e di suoni animali incontrollati. Senza sapere bene perché lo facesse, si ritrovò ad infilarsi il mantello, prendendo con sé il proprio tamburo, incurante delle insofferenze dei vicini a quel suono che, invece, egli amava molto. Con circospezione, oltrepassò i genitori e sgattaiolò fuori della porta di casa, immettendosi sulla strada di principale, salvo poi deviare per i campi, seguendo quel vociare che aveva avvertito dalla propria casa. Ben presto, si trovò circondato da uomini e donne, con addosso ancora l’odore delle pecore, che si dirigevano a passi veloci verso una delle grotte, abitualmente utilizzate come riparo per il bestiame. Una folata di vento lo gelò, facendogli pensare, per un attimo, che avrebbe fatto meglio a restarsene a casa; ma fu un attimo: ebbe la sensazione che, come era arrivato fin lì, sarebbe arrivato fino alla meta. Nella concitazione, qualcuno lo urtò, fin quasi a farlo cadere, ma il tamburino riprese a camminare, finché, facendosi largo a propria volta, riuscì a scorgere il motivo di quell’insolita folla in cammino nella notte, annunciato da un sonoro vagito. Si stupì che un semplice bimbo, come ne nascono a migliaia in ogni parte del mondo, potesse essere la causa di tutto ciò: pastori continuavano ad accorrere da ogni parte, portando con sé doni e primizie da offrire al piccolo, come se fosse un re. Ma come poteva essere re, se nemmeno aveva una casa? Sulle prime, si lasciò quasi sopraffare dall’ironia di quel pensiero, ma, attirato con lo sguardo verso la Sacra Famiglia, prevalse un senso di disagio: mentre tutti gli astanti, anche i più umili, avevano portato un dono al Bimbo, lui, uscito e in fretta e furia e senza neppure avvertire i propri genitori (che, tra l’altro, se si fossero svegliati, sarebbero anche stati in pensiero, non vedendolo a letto!), non aveva nulla che potesse essere utile a quella famiglia. Rattristato, guardò con dispiacere la Madre, pensando che l’unica cosa che potesse fare era solo suonare, ma non era sicuro che potesse essere apprezzato, visto che i vicini non erano mai troppo entusiasti. Inaspettatamente, la Donna parve aver intuito il suo pensiero e, con un cenno del capo, lo incoraggiò regalandogli uno sguardo infinitamente dolce. Il tamburino, allora, prese coraggio e suonò con entusiasmo il proprio strumento. Per un attimo, gli parve che anche il Bimbo gli sorridesse.
In quella notte benedetta, anche il tamburino  aveva trovato il modo di partecipare alla gioia collettiva per la nascita del Santo Bambino!

Questa, a grandi linee, è la vicenda racchiusa nella narrazione di un canto tradizionale statunitense, portato al successo dalla famiglia di cantori Trapp (quella, per intenderci, dalla cui storia fu tratto il celebre film The Sound of Music, in Italia noto come Tutti insieme appassionatamente) e riarrangiato da numerosi artisti, in occasione delle feste natalizie. Testimonianza che, anche il più povero tra i ragazzi, non può essere privo di un dono da fare al Bambino Gesù. Anzi, il dono più gradito e gratificante, per il Datore-dei-Doni è proprio la condivisione di quei talenti che ciascuno di noi ha e che, messi a disposizione, possono essere portatori di gioia e di speranza.
In ricordo di quella notte, è ormai abitudine diffusa scambiarsi dei doni ed in particolare farli pervenire, quasi a riconoscere in essi il dono-di-Dio per noi, nella nostra quotidianità. Per qualcuno, quest’usanza è esaltazione del consumismo.
Forse il problema sta solo nel ritornare ad abbeverarsi alla sua reale origine, nella gratitudine verso il Creatore e ricordarci che il vero dono siamo noi stessi, nel nostro donarci agli altri. Come ebbe modo di farci notare l’arcivescovo di Milano, nel suo Discorso alla Città, pronunciato in occasione del Santo Patrono, andrebbe ripristinata la “decima”: ma non in forma pecuniaria, troppo facile e poco coinvolgente. la vera “decima” è dedicare un decimo delle parole a vanvera per incoraggiare chi ne ha bisogno, un decimo del tempo che sprechiamo a qualcuno che desidera la nostra attenzione. Nella concretezza, è un richiamo senz’altro ragionevole affinché il Vangelo non rimanga solo mera utopia, ma possa incarnarsi nella nostra Vita, così come il Verbo di Dio si incarna, nel Natale, nella nostra umanità.  

 

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Fonte immagine: Brer-powerofbabel


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