fulmine

Scalzo e senza parole: così mi ha colto la notizia che vede coinvolto don Gino Temporin, al tempo rettore del Seminario Minore di Padova. Le mie parole chiedono due precisazioni: sono espressione della mia sola persona (non parlo a nome della Diocesi o di altri preti) e della mia storia personale, otto anni vissuti tra le mura del seminario minore (di questi otto, per tre don Gino è stato mio rettore e professore). Di quegli anni conservo una memoria appassionata e umanizzante, seppur consapevole che oggi una rielaborazione d’impostazione appare urgente agli occhi di chi la ama.
La vicenda che vede coinvolta questa comunità è oggi occasione di riflessione. Non so se chi ha abitato il Seminario senta di poter avvallare questa frase attribuita al giovane: «altre pratiche sessuali in cui era stato coinvolto da altri seminaristi e alle quali non era avvezzo». Come se chi vi abita fosse avvezzo: io non ci sto! Far parte di una comunità (maschile nel nostro caso) non significa automaticamente condividere la grammatica e l’alfabeto di qualsiasi altra aggregazione maschile dove il nonnismo e il malaffare possono essere forieri di intimidazioni e supposizioni. Un conto è la complicità simpatica di ragazzi che vivono assieme e sono chiamati a costruire un gruppo, un conto è la goliardia che anticipa il bullismo. Il seminario è una famiglia delicatissima: chi educa si trova davanti storie molto giovani e capitali di sogni, la fiducia delle famiglie e il supporto di una Diocesi, il fascino dell’Eterno e le sirene del quotidiano. A Padova il seminario è da anni una “casa di vetro”: ha aperto le porte alla gente, ha fatto dell’ospitalità il suo alfabeto, è un piccolo paese eternamente sotto i riflettori e le critiche. Prima di tutto, però, è un luogo di delicata umanità perché di un sospetto si è certi e testimoni: che ci sia una chiamata divina in corso, e con quelle non si scherza. E’ un concentrato di giovinezza, che non necessariamente dev’essere giovinezza “a basso prezzo”.
Don Gino per quindici anni ha retto le sorti di questo “paese”: sono passati migliaia di ragazzi, ha raccolto confidenze sottili e mastodontiche, ha abitato un periodo difficile e dibattuto. Un “manovale di Dio” al quale il vento in faccia non ha mai arrecato cedimento alcuno. Oggi tutto sembra crollare: un’accusa – non una sentenza, ndr – non può creare un mostro: l’umanità di un popolo si misura anche dalla capacità di riflessione e di attesa. La sua vicenda tocca il cuore della Diocesi e, proprio per questo, le parole vanno calibrate. Lo chiedono i politici che attendono sempre la Cassazione, lo chiedono i grossi nomi della delinquenza: oggi lo chiedo io per quest’uomo e per la mia Diocesi. Lo chiedo da dentro il carcere dove m’accorgo che troppo spesso i processi vengono fatti sui giornali, dove l’uomo non vuole “il” colpevole ma “un” colpevole contro il quale sfogarsi, dove un filo d’erba sovente diventa un fascio; questa non è civiltà, è gioco ad eliminazione. In questa vicenda c’è un ragazzo che soffre e con lui una famiglia; c’è un prete che soffre e con lui una Diocesi. La giustizia farà il suo corso ed emetterà le sue sentenze in base ai dati che raccoglie. Non spetta a noi la fine della vicenda; noi, però, possiamo fare in modo che questa storia non degeneri nella riflessione becera e sudicia di chi non trova altra ragione per vivere se non “giocare a freccette” contro qualcuno.
Ci sono giorni in cui taci e incassi: sono i giorni della sopportazione. Ci sono giorni che devi farti forza e parlare: sono i giorni in cui toccano il cuore della tua storia che, da figlio, senti il dovere di proteggere perché è un po’ tua madre. Per me questo è uno di questi giorni: oggi prego per entrambe le parti. Non so ancora la fine della vicenda, ma non è quella che m’importa per pregare. Perché se la ragione (della giustizia) starà in chi oggi viene accusato, vorrò bene a chi – giovane e a sue spese – capirà che le parole sono solo sillabe, ma talvolta anche coltelli e sassi aguzzi. Se la ragione starà in chi oggi accusa, pregherò per chi ha sbagliato e vorrò doppiamente bene a chi esce vittima: perché l’uomo che sbaglia è prima di tutto un uomo a corto di felicità. Anche qualora succedesse questo, però, sarà l’errore di un singolo e non lo stile di una comunità. Nel frattempo, a questo prete – educatore e confratello – sul quale oggi pesano parole difficili vorrò sempre e solo bene. Perché a me ha sempre e solo fatto del bene. Alla luce del sole.

(da Il Mattino di Padova, 10 maggio 2013)

Aggiornamenti (13 novembre 2013). La richiesta del pm Marina D’Arpa
Il pm: l’ex rettore del seminario va condannato a 7 anni
Pesante richiesta nei confronti di don Gino Temporin, imputato di violenza sessuale su un minore allievo del seminario
di Cristina Genesin

PADOVA – Non merita nessuna attenuante. E va condannato. La pubblica accusa ne è convinta: don Gino Temporin, 67 anni, ex rettore del seminario minore di Rubano, è colpevole di violenza sessuale aggravata nei confronti di un ex studente dell’istituto. Ecco la richiesta del pubblico ministero padovano Maria D’Arpa: 7 anni di carcere e, come pene accessorie, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e da qualsiasi ufficio attinente alla tutela e alla curatela. Sul piatto della bilancia la parola dell’uno (la presunta vittima che all’epoca dei fatti frequentava la terza media) contro la parola dell’altro (l’imputato).
Nessun dubbio ha sfiorato il pm: il piatto pende a favore della vittima, un ventiduenne della provincia di Venezia, credibile e coerente nel racconto della violenza subita, nonostante si tratti di un ragazzo con forti problematiche, sottoposto a terapie di natura psichiatrica e ricoverato più volte in casa di cura. E don Gino, mai un’ombra in 43 anni di sacerdozio? Mai una macchia, tanto nello svolgimento della sua attività pastorale quanto in quella educativa? Poco importa. Il pm ha insistito: non vanno concesse neppure le attenuanti generiche, di regola riconosciute quando un imputato è incensurato, per le conseguenze drammatiche patite dal giovane. Davanti al tribunale di Padova (presidente del collegio Claudio Marassi, a latere i giudici Ventura e Ballarin) anche ieri non ha mancato l’udienza don Gino, seduto accanto al suo difensore, l’avvocato Paolo Marson. Difficile, per lui, ascoltare le parole della pubblica accusa, sofferte come coltellate. Eppure il sacerdote ha voluto essere presente nel corso della durissima requisitoria del magistrato che ha ricordato il capo d’accusa (è «…imputato, nella sua qualità di rettore…, di aver abusato dell’allievo già provato sul piano psicofisico da altre pratiche sessuali in cui era stato coinvolto da altri seminaristi…») e ha insistito sulla credibilità del giovane. Secondo il pm D’Arpa la storia clinica del 22enne non è tale da inficiare la testimonianza resa sul rapporto al quale sarebbe stato costretto dal sacerdote nel suo ufficio.
Tra gli elementi di prova, una telefonata intercettata tra don Gino, già informato dell’inchiesta, e un collega prete: il primo, pur sereno e tranquillo, avrebbe manifestato preoccupazione per l’inevitabile disagio all’interno del seminario. L’indagine era stata avviata in seguito alla denuncia del ragazzo presentata dopo essersi confidato, nel 2009, con una psicologa della clinica “Le betulle” di Como dov’era ricoverato. In più di un’occasione, infatti, aveva tentato il suicidio. Nessun testimone di quella (presunta) violenza: in aula un paio di ex compagni hanno raccontato che lo studente era stato coinvolto da altri seminaristi in pratiche sessuali. E che si era manifestato piuttosto inesperto. I periti nominati dal tribunale (il medico legale Claudio Rago, la psicologa Magda Tura e il neuropsichiatra Marziano Cerisoli) hanno concluso per un’alta improbabilità circa la certezza storica dell’accaduto, pur riconoscendo capacità di testimoniare nel giovane, affetto da un disturbo psicotico, da un disturbo di personalità e di identità di genere. Si tornerà in aula il prossimo 20 novembre: parola alla difesa, poi la sentenza.

(da www.mattinopadova.it)

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