Un trucco ch’è patrimonio di parecchie chiese e di altrettanti sacerdoti nella domenica delle Palme, quella che apre la Settimana Santa: vista la lunghezza del testo evangelico – la lettura della Passione di Gesù Cristo – si opta per quella riduzione che nel lezionario viene definita “forma breve”. In poche parole di quel Vangelo si tagliano dei pezzi per accelerarne la lettura e non sfidare più di tanto la pazienza dei fedeli. Si leggerà, dunque, la “forma breve” della Passione del Signore. Che, a mente fredda, altro non significa che darla vinta al Demonio ch’è sempre in agguato quando si tratta d’illudere la gente e di allearsi con i ministri del Cielo. Quella volta, in quel primo venerdì della storia cristiana, la Passione di Cristo non fu in “forma breve” ma tenne tutti i connotati della sofferenza e della malvagità, dello strazio e dell’abbandono, dell’angoscia e della tortura, di un Dio che sembrava lontano se non addirittura assente: “Dio mio, Dio mio: perchè mi hai abbandonato” (Mt 27,45 ). Insomma, leggere quel testo in “forma breve” è essere irrispettosi di ciò ch’è spettato al Signore della storia: è voler tagliare qualche pezzo con la pia illusione di poterli evitare nella nostra vita, di scordare qualche passaggio al fine di convincerci che poi il dolore e la passione si possono vincere con qualche scorciatoia.
Come una finestra, invece, è il Vangelo della Passione: t’affacci e scopri ben presto che in nessun posto nel mondo nessuna passione – vissuta sotto il nome della sofferenza, della malattia, della disperazione – è mai in “forma breve”. Nelle navate della Città della Speranza flotte di bambini vivono la loro passione fino in fondo; dentro le notti di mille città ci sono manipoli di uomini e donne che abitano le loro sofferenze senza poter scegliere “forme brevi”; ci son storie d’amore e di fedeltà che s’addentrano nello strazio dell’incomprensione del fallimento senza poter scegliere la “forma breve” per poter soffrire meno. Ci son storie di santi e di mistici che sperimentarono nel loro intimo lo strazio della “notte oscura” e non poterono viverla in forma breve: per poi scoprire che quella lontananza di Dio altro non era che un tentativo di riaccendere una più ardente presenza. E’ sotto gli occhi di tutti che nei laboratori dove la sofferenza tiene le sue lezioni l’unica cosa impossibile è quella di chiederle di fare una “lectio brevis”, oppure di accelerare quel corso con un tentativo di “forma breve”: la sofferenza è sempre e solo completa. Per poi dare all’uomo che la vincerà, dopo averla abitata fino in fondo, l’ardire d’aver combattuto e vinto una battaglia difficile, ostica, inimmaginabile.
Nemmeno l’Uomo dei Vangeli – ch’era Figlio d’Iddio – accettò di leggere la sua passione in “forma breve”: fece i conti con gli sputi, l’indifferenza, l’ingiustizia e la follia umana. S’addossò il peso di quel dolore fino in fondo, per poi poter sbeffeggiare da Risorto la morte stessa: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,55). Quel giorno il mondo seppe ch’è difficile battere chi non si arrende mai; chi, mai sazio di vita, accetta d’abitare la sofferenza senza chiedere sconto alcuno. La “forma breve” del Vangelo è un trucco, ma anche un’illusione e un solletico. Una caramellina per anime fragili e sentimentali. Leggerla tutta è stare dalla parte della vita, è porgere alla creatura in ginocchio il dono di una compagnia che somiglia ad un balsamo: “Ogni persona che incontri sta combattendo dentro di sé una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre” (C. Mazzacurati): sii gentile, non leggerle il Vangelo della Passione in “forma breve”. Leggiglielo tutto d’un fiato, tra condanna e sputi com’è stato scritto. Perchè nessun uomo si senta escluso dalla possibilità di guardare pure lui in faccia la morte e deriderla. Come Cristo.
(da Il Mattino di Padova, 13 aprile 2014)