crocerio

Hanno tramandato addirittura il numero esatto di ciò che rimase in quel prato: “dodici ceste piene di pezzi avanzati” (Lc 9,17) dopo che tutti mangiarono a sazietà. E’ un particolare prezioso di una delle pagine evangeliche più ricche di affetti: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Quel giorno la folla comprese che nel poco c’è il germe del tutto, forse anche dell’eccesso di Dio. Il Vangelo racconta delle dodici ceste, la cronaca di questi giorni racconta di quattro sacchi: “quattro sacchi pieni” di oggetti che i ragazzi hanno simpaticamente lanciato a Francesco nella papamobile al suo passaggio. E che lui ha voluto portare a casa con sé. Quella delle ceste e dei sacchi è un parallelismo meraviglioso di cosa significhi oggi che il cristianesimo è prima di tutto un fattore umanizzante: qualora ci dimenticassimo questo – ammoniva Giovanni XXIII^ all’alba del Concilio Vaticano II – rischiamo di fare dell’inutile moralismo. Chiedendo magari ai giovani di soffocare le loro passioni, o umiliarle, senza ricordarci che la vera santità abita altrove: in una passione convertita, non in una passione spenta. Perchè un Dio che umiliasse l’umano è un Dio che non meriterebbe il più minimo accenno di attenzione e simpatia.
Il popolo di Rio de Janeiro ha lasciato quattro sacchi pieni di oggetti nei bagagli del Papa: dentro, forse, qualche sciarpa, fazzoletti colorati e madidi di sudore, fotomontaggi o graffiti colorati, lettere di confidenza o oggetti che raccontano di storie sconosciute. Nessuno saprà il contenuto di quei sacchi: ci basta sapere che erano “sacchi pieni” che parlano di storie giovani che a Francesco hanno lasciato come dono del suo passaggio un qualcosa di loro, come si fa con un amico in modo che si ricordi di te. Con la sua sola presenza li ha resi forti e intrepidi: è incredibile quanto diventi forte l’uomo quando avverte che da qualcuno lui è amato. Ha scaldato i loro cuori parlando di Gesù di Nazareth, ha additato loro la scalata della santità, ha infuso nelle loro anime una certezza: “con Cristo ce la puoi fare!”. E con loro ha riflettuto sulla domanda che lui avverte oggi urgente: “siamo ancora capaci di scaldare il cuore della gente?” Parla loro di Dio come di un’eterna sorpresa, risveglia in loro le dinamiche degli affetti e dei sentimenti che sono tipiche delle storie d’amore, scende con loro nelle periferie dell’umano per imparare con loro che il divino non diminuisce l’umano ma lo accresce. Per strappare i loro sguardi non propone loro un’altra Chiesa, ma prospetta loro una Chiesa diversa. E, così facendo, imbarazza una certo modo di essere chiesa. Oggi uomini di chiesa, vescovi compresi, rinfacciano ai giovani un’affermazione: “Cristo sì, Chiesa no”. E loro, agganciati da questo poeta delle periferie, smontano questo teorema e lo gridano dalle sponde del mare, come i primi pescatori: “Cristo sì, con la sua Chiesa”. Una chiesa, però, dove ci sia posto per tutti: per chi nella figura di Cristo ha posto la sua fede e per chi di Lui ha solo sentito parlare, per chi ci va convinto e per chi ci va curioso, per chi cerca una conferma alle sue risposte e per chi cerca una domanda che interpelli le sue presunte certezze. Francesco, con il fiuto dei pastori migliori, intuisce il loro grido – “ridateci la Chiesa” – e offre loro un lembo del suo mantello di profeta. Per fare diventare profeti loro stessi: “chi può evangelizzare un giovane meglio di un giovane?”.
Calano le ombre su Rio de Janeiro, s’accendono le luci dei Vangeli. A stupire il mondo, però, è ancora quel Papa che scende dall’aereo con la sua valigia in mano. In quel gesto giace il testamento più bello: la grammatica della semplicità come lingua madre dell’Amore che sorprende. Tra le ceste dei Vangeli e i sacchi della Gmg, un contropiede da autentico fuoriclasse. Di Dio.

(da L’Altopiano, 1 agosto 2013)

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