Com’è bello il Dio di misericordia annunciato da Gesù! Un Padre amorevole, leggeremo, o ascolteremo, domenica prossima, che contro ogni previsione di logica umana attende con trepidazione un figlio che ha deciso di voltargli le spalle e di andarsene di casa per sperperare ogni bene. Una cascata di amore che non si ferma dinanzi a nulla: soccorre i morsi (della fame) e i rimorsi del più piccolo e non esita a stendere un manto di rassicurazione sul più grande, ricordandogli che è sempre stato amato in egual misura, non un grammo di meno.
Una stupenda lezione di genitorialità, che sembra quasi di un altro pianeta rispetto alla mazzata della Prima Lettura che ci attende. Sarà una bordata paurosa, di quelle che prima stordiscono, poi quatte quatte ci arrivano accanto all’orecchio e sussurrano melliflue “ma siamo sicuri che questo Dio sia lo stesso di quello di cui parla Gesù?”
Di primo impatto, pare che non vi si possa dare torto.
Ci ritroveremo, infatti, prima insieme a Mosè ed al suo popolo, presso il Sinai, mentre scoppia la collera di Dio verso quegli impazienti degli israeliti che hanno costruito il vitello d’oro. Poi arriverà il Rabbi di Nazareth e parlerà di padri sulla soglia, che corrono fuori di casa per condurre a sé entrambi i figli che avevano compreso poco o nulla del loro amore.
Davvero, come si possono conciliare quell’ira impetuosa e quel traboccare di misericordia?
Proviamo a scoprirlo insieme.
Quaranta giorni e quaranta notti: la durata del periodo in cui Mosè si assenta dal suo popolo, per ricevere in dono il Decalogo sul Sinai. Un lasso di tempo simbolico, che in tutta la Bibbia torna a più riprese, con più personaggi: è il tempo in cui maturano le decisioni di fede, il tempo in cui ci si mette alla prova, nel quale si decide se assumersi o meno le proprie responsabilità. Gli israeliti, ai piedi del monte, nulla sanno di quel che accade in cima e la loro pazienza giunge ad un punto di non ritorno. Chiedono ed ottengono la costruzione di un vitello d’oro, per poterlo adorare.
Il Dio invisibile, “Colui-che-c’è-sempre”, ad essi sta talmente largo che non sanno proprio che pesci pigliare, non sanno da che parte cominciare per conoscerlo. Meglio quindi un’effigie. Non un’altra divinità, no, ma qualcosa di tangibile che ricordi loro l’emblema della forza e della potenza con cui sono stati liberati: ecco il perché del celebre quadrupede. A vederlo, tutto sbriluccicante ai raggi del sole, il cuore fa un respiro di sollievo: il divino è lì, si vede, si tocca con mano, è più comprensibile, è più… ingabbiabile. Un Dio fai-da-te, costruito alla maniera dei mobili Ikea, della misura giusta come la si desidera, né più né meno.
“L’uomo non può farsi da sé il proprio culto.” (J. Ratzinger)
Anziché innalzarsi verso il divino, hanno preferito farlo scendere al loro livello, modellandolo con lo stampino, com’era loro più congeniale.
Ora, provate ad immaginare se qualcuno facesse la medesima cosa con voi. Ne sareste – come minimo – parecchio risentiti e non esitereste a protestare.
Il Dio del Sinai si sente più o meno così. Lui, il Vivente, non ci sta ad essere ridotto a mero simulacro, non ci sta ad essere racchiuso negli schemi umani: come dargli torto, può forse l’oceano intero pretendere di essere raccolto dentro una conchiglia?
Non vuole essere ingabbiato, non per presunzione, ma perché lasciarsi configurare con metro umano significa far credere alle sue creature che il suo amore è limitato al loro sentire. Un amore monco, fatto di briciole, di do-ut-des: non un abbraccio reciproco, ma un baratto di favori.
Non sapete che vi perdete, o uomini, a non aprirvi ad una trascendenza che trabocca di misericordia infinita!
“E tu lascia che la mia ira si accenda verso di loro.” (Esodo 32,10)
Ma eccolo qui, l’inghippo, il gioco di parole che tanto in ebraico quanto in italiano è reso alla pari. Dio chiede a Mosè: lo interpella personalmente, domandandogli “che dici, posso arrabbiarmi con loro?” L’infinito, adesso sì, si aggancia al finito, perché di lui sa di potersi fidare. La logica umana, infatti, seguirebbe l’ovvia strada dell’ira; quella divina, invece, segue i passi di una promessa d’alleanza reiterata più e più volte. E Mosè, l’intercessore, l’amico di Dio, sceglie quest’ultima.
Mentre gli israeliti ai piedi del monte avevano rifiutato la trascendenza di Dio, cercando una maggiore accessibilità presso un vitello d’oro, Mosè non le pone limiti, se non il ricordo di una promessa che era simile ad una freccia scoccata verso il futuro.
Dai simulacri materiali a quelli mentali il passo è breve. Ognuno di noi, nel suo piccolo, si costruisce una propria immagine di Dio, ma se questo ci è abbastanza naturale perché è nella nostra natura ragionare per schemi che siano misurabili, non lo è più quando si pretende che essi poi corrispondano per forza alla realtà delle cose.
Accadde lo stesso ai due fratelli, racconta il Rabbi di Nazaret: entrambi si erano costruiti un’idea del padre che non corrispondeva a quella reale. Apriranno gli occhi ad una Misericordia con la maiuscola solo dopo che entrambi saranno stati rincuorati, abbracciati, presi per mano.
Il Dio, di Mosè, dei due fratelli, è sempre lo stesso: un Vivente che, anche quando si fa Uomo, non vuole che siano i criteri umani a dettare la misura del suo amore, perché esso è incredibilmente più grande di quanto si possa immaginare.