alunnoCome uno scultore in fronte alla sua statua. Null’altro mi rimane che contemplare il tuo volo. Ricordo il primo giorno che t’affacciasti al mondo delle superiori: quattordici anni di sogni e di aspettative con quel pizzico d’emozione tratteggiata sul volto che raccontava l’inizio di un’avventura. Quel giorno incrociammo i nostri sguardi e capimmo che la strada sarebbe stata lunga solo per chi non sarebbe andato in fondo ai propri sogni. Il tuo sguardo tradiva il sospetto che io e te saremmo stati avversari e nemici: per settimane ci studiammo a vicenda, tu dalla penultima fila a destra, io dal limitare di quella cattedra che mi vedeva prof alle prime armi. Cinque anni son passati da quel giorno: tu ora te ne stai acquartierato nella tua camera per farti trovare pronto il giorno della maturità, io me ne sto fisso a contemplare lo spiccare del tuo volo.
L’aula di un’anonima scuola di periferia è stata per un lustro il nostro campo di battaglia; ma anche il nostro laboratorio d’artigiano. Tu l’apprendista, io il maestro (a mia volta apprendista di altri maestri): come i vecchi ciabattini d’un tempo alla cui ombra s’apprendeva l’arte d’aggiustare le scarpe osservandoli e imitandoli per poi mettersi in proprio. Di letteratura e d’arte profumavano le nostre mattinate: non sono stati certamente anni facili all’ombra di Isocrate e di Platone, del Carducci e del Pascoli, navigando in compagnia di Ulisse o traghettando il fiume scortati da Caronte. Quante volte il tuo sguardo mi urlava: “prof, a che servono queste storie”. T’avranno detto in tanti che si può diventare grandi anche senza saperne di latino e di greco: qualcuno, però, t’avrà pur tratteggiato l’emozionante avventura di scendere nelle fonti del sapere, laddove l’uomo per la prima volta ha imparato a descrivere un concetto, a misurare un atomo, a tratteggiare la linea di demarcazione tra il conosciuto e l’ignoto, a dipingere la nostalgia e l’amicizia, l’astio e la delicatezza. A chiamare per nome quell’Assoluto che sovente ho amato presentarti, magari nascosto sotto le fattispecie di un desiderio da accendere. E tu mi rispondesti tra le righe di un tuo compito quando scrivesti in calce alla tua firma: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio”. Quel giorno, con il lapis in mano, capii la tua passione per il Manzoni e per le grandi questioni dell’esistenza. A scuola non parlavate facilmente di Dio. Però nelle vostre frasi – soliloqui, monologhi o confidenze fatte sotto banco – parlavate di solitudine, angoscia, tristezza, ansia, malinconia, fastidio, abisso, baratro. Oltrechè di stelle, fiori, stupori, innamoramenti, estro, fantasia, pasisone e luce. Nacque lì, dentro quei vostri sguardi attoniti e trafitti, il sospetto che mi fece innamorare di voi: il vostro non parlare di Dio era per me il vostro modo creativo di parlarne. Mi parlavate di Lui senza nominarLo mai: me ne parlavate per mancanza o per distanza. O forse per troppa nostalgia.
Ora tu spiccherai il volo e a me non rimarrà altro che contemplarlo. Dipenderò dalle tue gesta, come un allenatore dipende dalle prestazioni del suo atleta. Scusami se non ti ho mai risposto quando tu mi chiedevi: “prof, domani ci sarà un lavoro per me?”. Non t’ho risposto perchè avevo una domanda più bella da porti: “ragazzo, quanti posti di lavoro saprai creare con la tua inventiva?”. Ho preferito accendere dei fuochi piuttosto che riempire dei vasi. Forse non ci sono riuscito, però t’assicuro che m’è rimasta la bellezza di averci provato. E “grazie” perchè senza di te oggi non sarei il prof che sono: io esisto perchè esiste un alunno che ha nostalgia del sapere e, alzando la mano, chiede una delucidazione. Dimenticati tutto, ricordati solo la frase di A. France che ti scrissi alla lavagna il primo giorno delle superiori: “s’impara solo divertendosi”. – (Il tuo insopportabile prof)

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