Eppoi qualcuno troverà ancora il coraggio di chiamarli “onorevoli”. A parte il fatto che i titoli dovrebbero essere tributati e non comandati per profumare di verità, rimane il fatto che quello di onorevole è proprio il più bistrattato nella Nazione dal Parlamento più carnevalesco del mondo. Chissà perché è stata la politica ad autotributarsi quest’appellativo, forse per quell’aura di magia nascosta in un aggettivo così nobile da venire usato pure come sostantivo. Onorevole lo si dice di un gesto, di un’azione. Riferito ad una persona lo si dice per chi è degno di rispetto e di onore. In questi giorni per l’ennesima volta il Parlamento (ci piacerebbe poter dire il “nostro” parlamento, ma gli aggettivi possessivi chiedono di non essere sfiduciati) c’ha mostrato che di onorevole c’è ben poco. Che un allenatore applichi l’attacco preventivo per mettere al riparo la squadra da inutili pressioni è arte e maestria. Che un ministro – l’ennesimo della squadra eletta “democraticamente” dal popolo – attacchi, insulti, mandi a quel paese la Presidenza di una Camera, lanci il tesserino di partito, inneggi allo sberleffo di una deputata diversamente abile non è attacco preventivo, bensì maleducazione allo stato puro. E la maleducazione anche a Montecitorio non è mai sinonimo di onorabilità: a meno che non ci sia un vocabolario ad personam nel quale ogni singola parola viene scritta, riscritta e rieditata a seconda delle mozioni favorevoli o contrarie di chi pilota un gruppo.
In coscienza non si può, dunque, costringere un cittadino a definire onorevole chi fa della sua posizione uno sberleffo al senso dello Stato e dell’educazione. E siccome il Parlamento non è un talk-show in cui poter usare a proprio piacimento battute, gesti e simboli popolari, allora chi vi siede deve rendere conto anche dello stile. Sarà curioso – e non mancherà certo l’occasione – di sentire il medesimo ministro parlare di educazione politica, di rispetto per il crocifisso, di senso d’appartenenza, quando le sue gesta raccontano proprio il contrario. Gli ricorderemo che l’aggettivo “onorabile” deriva dal verbo “onorare”. Ma il popolo sa che è segno d’onore ciò che si mostra tale: io ti rendo onore ma tu dimostrati onorabile. In caso contrario non mi puoi costringere a pensarti tale in virtù di un appellativo che la tua casta ha truffato.
Mai come in questi giorni il popolo italiano guarda al Capo dello Stato come al garante della dignità di una nazione bistrattata e usata a proprio uso e consumo. Dove anche la bellezza del volto di un donna – come nel caso della Pubblicità della TIM – rischia di vedersi radiare perché ha manifestato contro gli “onorevoli” rappresentanti del governo. Cioè anche la bellezza, categoria per natura neutra nell’appartenenza politica, deve rendere conto delle tempeste ormonali di chi siede negli sgabelli romani.
Siccome il termine “onorevole” riferito ad un eletto non è mai stato istituito (ma proviene da una consolidata prassi iniziata nel 1848 alla camera subalpina) e nel Ventennio non godette nemmeno di così tanta simpatia, facciamo che lo togliamo del tutto. Tanto perché all’estero non ci rinfaccino il detto “becco e bastonato” vedendoci privare oltreché della dignità anche della ricchezza del nostro linguaggio. In caso contrario anch’io mi farò chiamare premier o ministro. E se qualcuno dirà qualcosa potrò sempre avvalermi della facoltà di non rispondere. O, molto più elegantemente, mi farò giustificare dicendo che mi sono inventato un linguaggio ad personam. Dicono sempre di imparare dai migliori. Li chiamano onorevoli: prendiamo esempio, dunque. E che tacciano stavolta.