novat090-thumb“Credo in Dio. Gesù ha lasciato un bel messaggio. Ma della Chiesa non mi fido”. Quante volte sarà riecheggiata questa frase nelle nostre orecchie, uscita da bocche più o meno famose? Ma, molto spesso, probabilmente, ha abitato anche il nostro cuore!

Che significa veramente? Perché abbiamo questa tendenza a separare Cristo dalla sua Chiesa, quella che si è scelto e che ama?

Credo che il messaggio più bello che sia stato lasciato dal Cristo sia quella frase, in conclusione del Vangelo di Matteo, forse non famosissima, ma molto significativa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). È inutile: l’essere umano si affeziona alle cose, figuriamoci alle persone! Quanta rassicurazione c’è dietro a questa semplice frase? Quella che richiedono cuori smarriti e ancora confusi da eventi troppi grandi che hanno sconvolto la loro semplice esistenza. E in questa semplice frase credo siano racchiuse cura, attenzione, delicatezza. Nella convinzione che non è possibile attirare un cuore, senza accettare di intrecciare la propria esistenza con le sue fragilità ed insicurezze.

Mi viene in mente un’immagine che non ricordo chi abbia utilizzato come esempio: sarebbe come accettare l’invito di un amico a cena, salvo poi rifiutarci di condividere lo spazio e la tavola con gli altri commensali. Come è possibile accettare l’invito, senza accogliere chi, come noi, è stato invitato? Chiunque riterrebbe scortese anche solo il pensare di trattenere per sé il padrone di casa, allontanandolo dagli altri invitati (invitati dal padrone di casa!), perché sono sgraditi a lui, che è ospite e invitato, come tutti gli altri.

Credo che l’esempio renda l’idea di quel che significhi essere Chiesa. Che è poi proprio questo: condividere l’essere commensali, unicamente in quanto chiamati allo stesso banchetto e non a banchetti diversi. È unico, perché la proposta resta, immutata nei secoli: «Seguimi». Si tratta di camminare, di stare al passo, con un Uomo che cammina, per le strade di questo mondo.

Poi c’è il mistero del Male, che non ha mai risparmiato la Chiesa, quasi fosse una campana di vetro, posta a protezione del mondo. Anzi, sembra quasi si sia accanita in particolar modo nei suoi confronti, mettendone a nudo l’umanità più disprezzabile, la mediocrità più meschina. Forse proprio perché “basta la Sua grazia: la Sua potenza si manifesta nella nostra debolezza” (2Cor 12,9).

Tutto questo tuttavia non deve scoraggiare, né al contrario scaricarci della nostra responsabilità. Sì! Perché se la Chiesa è formata da ogni battezzato è evidente come ognuno di noi sia chiamato ad essere testimone credibile della propria fede. A partire dal libro della nostra vita, il più leggibile agli occhi altrui. Perché ben poco potranno valere le nostre parole, specie se sono incoerenti con ciò che la nostra vita è, nella quotidianità dello scorrere dei giorni!

E, pur prendendo altra decisione, comprendo quanto sia difficile amare Cristo nonostante i cristiani e il nostro personale esempio, che non è sempre illuminante, né sempre coerente, né sempre gioioso, né sempre entusiasta. Ogni tanto siamo la brutta copia di noi stessi, altro che immagine e somiglianza di Dio! Le nostre stanchezze, le nostre pochezze, le nostre fobie, le nostre “fissità” inevitabilmente inquinano una proposta. Ma la sorgente resta limpida, ed è da lì che giunge la linfa vitale che irrora tutto il resto. Ecco, perché, pur comprendendo chi, riluttante, s’allontana, indispettito, risentito, spesso profondamente (ecomprensibilmente!) deluso, la mia scelta è diversa, è quella di restare.

Perché c’è di più, c’è dell’altro. C’è quello che fa la differenza. Quel Cristo che ti viene a cercare anche nel cuore della notte, pur di assistere alla meraviglia di un vecchio che rinasce. E in nome di quel Cristo che ama anche le mie cicatrici più profonde, nascoste nel mio io più nascosto, in nome suo io non posso evitare di amare anche quelle di chi, in cammino come me, come me sbaglia. Siamo chiamati a questo. Credo che la grande sfida dell’amore sia quella di amare proprio i difetti; è – forse – l’unico antidoto per non amare l’idea dell’amore al posto dell’amore vero, che passa attraverso paesaggi e atmosfere non sempre idilliaci. Anzi.

Don Milani non temeva di difendere la sua “carissima moglie chiesa che amava tra infiniti litigi e contrasti (come ogni buon marito usa fare)” (cfr. Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana). Come del resto, Alessandro Pronzato ben sintetizza nel titolo di una delle sue ultime fatiche letterarie: Amo questa Chiesa, anche se non è quella dei miei sogni. E all’interno di questo, troviamo un’importante precisazione di Henri de Lubac: «Io non nego le miserie d’ordine vario, morale o d’altro, che in ogni tempo l’hanno afflitta e che l’affliggono oggi in ciascuno di noi. Io le affermo, io le proclamo, io ne enuncio il paradosso e lo scandalo inerente alla sua missione stessa. Ma descrivere questa miseria minutamente, mettere in mostra le sue piaghe non farebbe avanzare minimamente la conoscenza del mistero della Chiesa[…] E poi la Chiesa siamo tutti noi, io stesso: con quale diritto mi metterei fuori dal quadro? Io, peraltro, non ho nessuna voglia di fare la mia confessione pubblica…».

Alle volte incriminare la Chiesa risulta un alibi: per lavare la propria coscienza, per tirarsene fuori, per farsi belli e pensarsi migliori. Ma, in fondo, non è che uno specchio che riflette: la nostra voglia di cambiare, i nostri desideri, i nostri sogni, ma anche i nostri tradimenti, i nostri paradossi, le nostre paure e le nostre ipocrisie.

Come sempre, credo che l’unico modo per non perdersi, sia tenere sempre ben presente l’Origine, Cristo e il suo “stile”, cercando di non prendere da altri enti e istituzioni il peggio (la burocrazia) e mettendo al centro la persona, nella sua individualità, come Gesù sapeva fare magnificamente: senza timore di dover camminare a lungo, sulle strade di Galilea, né rivoluzionare il protocollo, se questo si rivelava necessario per incontrare un cuore in cerca di Lui. Don Tonino Bello si affida, del resto ad una significativa icona del Triduo per mostrarci un’immagine di Chiesa che sia convincente: la Chiesa del grembiule, come quello utilizzato da Gesù nella lavanda dei piedi, raccontato da Giovanni quale modalità di “essere” Eucaristia (nel capitolo 13 di Giovanni sostituisce la Consacrazione, presente negli altri evangelisti).

Ma forse, quello che più ancora illumina un senso di Chiesa che sia uno sguardo onesto e sincero sulla sua realtà e non solo sulla sua idealizzazione, la dà la festa della Divina Misericordia, che sottolinea ciò che ci accomuna tutti, che è il bisogno di essere perdonati. Perché tutti ci sentiamo in colpa, anche quando non dovremmo, perché di fronte ad alcune questioni siamo davvero oggettivamente impotenti: ecco perché abbiamo bisogno di sentirci perdonati, anche di ciò che non è colpa nostra, perché questo ci fa sentire amati e accolti e riesce a farci sperimentare l’amore di Dio.

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