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“Ciao, come ti chiami?”
Quante volte lo abbiamo domandato? Quante ce lo siamo sentiti chiedere?
In questo modo così semplice sono iniziate le grandi storie d’amore, le amicizie più epiche, i rapporti tormentati, le faticose collaborazioni di lavoro.
“Come ti chiami?” è una domanda che intende instaurare una relazione di vicinanza, è un annullare le distanze della diffidenza: l’altro non è più impersonale ed imparare il suo nome significa farlo diventare qualcosa di importante per noi.
Quando però a fare la domanda è Mosè ed il suo interlocutore è nientemeno che Dio stesso, la situazione non appare certo così semplice come quella del nostro quotidiano.
Siamo nella penisola del Sinai. Mosè, fuggito dopo aver ucciso una guardia egizia per difendere uno schiavo ebreo, si ritrovò catapultato dalle stelle alle stalle: da principe d’Egitto a pastore seminomade (Esodo 3). Completamente rassegnato a quella nuova situazione, tanto da mettere su famiglia in quella terra che gli aveva offerto rifugio e ospitalità, non aveva fatto i conti con il Dio d’Israele, che richiedeva un suo ritorno in scena da protagonista, anziché una quieta esistenza dietro le quinte. Facile a dirsi, difficile a farsi: come affidare la propria sopravvivenza e quella di un intero popolo a qualcuno di cui non si sa nemmeno il nome? Mosè osa chiedere, memore anche del fatto che le divinità ai suoi tempi erano tutte con nomi e soprannomi, con caratteristiche ben precise e comportamenti specifici che le distinguevano le une dalle altre.
Scusa, Dio, ma come ti chiami?
E la Misericordia rispose.
Rispose con quattro lettere. Quattro consonanti scritte nero su bianco, un tetragramma così sacro da diventare impronunciabile, tranne un giorno all’anno e solo dal sommo sacerdote, durante la festività dello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione.
“Io Sono”.
“Io Sono Colui che è.”
“Il Vivente.”
Queste le traduzioni più gettonate di JHWH, che già a prima vista ci mostrano la differenza tra questa presentazione e quella di qualsiasi altra divinità antica: qui il nome di Dio abbraccia la sua essenza e si fa vero e proprio programma d’intenti.
Il nome di Dio è qualcosa che si staglia per l’eternità, è l’antitesi di ogni “torno subito”, “adesso non ho tempo”, “segnale assente per mancanza di campo”.
Io-Sono, ovvero Io-Ci-Sono. Ieri, oggi e domani.
La lingua ebraica qui non lascia spazio a dubbi: il nome di Dio è un verbo che ha il “vivere” come sua radice e un’azione che perdura come sua caratteristica temporale. E’ vita per l’eternità.
Alla faccia del Dio distante. Alla faccia del sussurro, colmo di veleno, del nemico bugiardo per eccellenza, che sornione esclama “ma vuoi che Dio pensi proprio a te, che sei niente?”
Io-Ci-Sono, invece, a te ci pensa eccome, tanto da agganciarsi alla tua umanità come se fossi tu la sua ancora di salvezza.
Io-Sono il Signore-Dio-tuo, Io-Sono il Padre-Vostro: in parole povere, Io-Sono sempre insieme a te, dal tuo primo vagito al tuo ultimo respiro, sappi che non ti lascerò mai solo.
Dal dire al fare, c’è di mezzo non il mare, bensì l’Emmanu-El, il Dio-con-noi, colui che tiene stretti in un abbraccio Dio ed uomini, che unisce terra e cielo dal legno di una croce.
Scusa, Signore, ma dopo tutto questo discorso, in sostanza come hai detto che ti chiami?
“Colui che vive con te e per te, sempre.”

Credit Immagine: Velasco Fano.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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