La liturgia ambrosiana propone, questa settimana, una riflessione sul cibo, che però non esula affatto dalla spiritualità, come magari saremmo portati a pensare. Anzi!
Dopo aver sviluppato una lunga introduzione alla raccolta dei detti sapienziali, attribuiti a Salomone, re sapiente di Israele (sec.X), possiamo leggere, a modo di parabola, nel libro dei Proverbi, due donne che rappresentano la personificazione della Sapienza e della Follia.
Entrambe preparano un banchetto (quello di Donna Follia è riscontrabile qualche passo più avanti in Pr 9,13-18), ma il confronto tra le due donne è impietoso. Al contrario della Sapienza, Follia non va in cerca, ma “sta seduta alla porta di casa, su un trono in luogo alto della città” e invita gli stessi passanti, rintracciati dalle ancelle della Sapienza: “gli inesperti e i privi di senno”. La Sapienza offre da mangiare il pane e da bere il vino.
La Follia non ha vino (il vino simboleggia la gioia messianica), ma solo acqua (“le acque furtive sono dolci”) e pane, gustoso, perché “preso di nascosto”: il banchetto della Follia attira, dunque, i propri invitati, giocando sul gusto del proibito. La Sapienza incoraggia, invece a istruire ed educare, tenendo presente che “principio della Sapienza è il Timore del Signore”:
A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Pr 9,6).
Reduce dalla visita a Barbiana, in visita ai luoghi di don Lorenzo Milani, con alcune famiglie che stanno mettendone in scena un musical che racconti la sua storia e l’importanza della parola ad un mondo che – irretito dalla velocità comunicativa, rischia di perderne di vista la profondità e l’incisività – non posso non pensare all’attualità, per l’uomo di ogni tempo, della Parola dell’Antico Testamento.
Cambieranno magari i destinatari (il target, come si dice, in gergo), ma possiamo trovare un richiamo che non smetterà mai di provocare chi ha potuto avere la fortuna, l’opportunità e l’occasione di ricevere un’istruzione superiore alla media. La cultura non è solo un orpello di cui far sfoggio come un pavone, né – a maggior ragione – uno strumento per irretire e spadroneggiare sui più poveri, ignari dei propri diritti e delle proprie possibilità. La condivisione del sapere richiama ciascuno responsabilità e solidarietà. Perché la cultura ed il sapere non sono superflui, né facoltativi, bensì rappresentano la possibilità di nutrire il nostro più profondo desiderio di essere uomini, che passa attraverso la curiosità e la scoperta, ogni giorno, di nuove sfide e nuove possibilità.
Solo se riconosciamo – come un’intima convinzione – di necessitare di una formazione permanente, riusciremo a comprendere che la conoscenza è qualcosa che nutre il nostro essere uomini, così come le bistecche e la pasta nutrono il nostro stomaco e sostengono la nostra vita quotidiana.
Nella sua Prima Lettera ai Corinzi, l’Apostolo affronta largamente la questione della Comunione sacramentale e del suo significato e – in particolar modo, nell’estratto liturgico – del suo rapporto con le carni sacrificate agli idoli:
io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. (1Cor 10, 21)
Adesso, forse, potremmo sorriderne, perché il contesto socioculturale è molto diverso, ma allora la questione era particolarmente discussa ed accesa: cosa fare, quando si era invitati ad una mensa di pagani? Tutte le carni presenti a tavola provenivano, infatti, da sacrifici pagani. La risposta più istintiva è pensare che – se uno non crede a quegli dei – non fa alcuna differenza la provenienza della carne. San Paolo, però, in questo estratto, si mostra fortemente contrario a questa scelta. Più avanti (10,23-32), ne spiegherà il motivo: nonostante gli idoli pagani non esistano, un comportamento come quello descritto potrebbe rappresentare uno scandalo, per chi è meno saldo nella fede e – magari – si è da poco convertito al cristianesimo. San Paolo ci ricorda quindi un principio vero anche oggi, per il popolo di Dio: come Chiesa, siamo chiamati a farci carico gli uni degli altri e a diventare sostegno nel cammino – e non intralcio – , soprattutto per coloro i quali fanno più fatica nel cammino.
Nel Vangelo, affrontiamo come sia nata la Rivoluzione Messianica dell’Eucaristia, che ha costituito, a lungo una sorta di “scandalo”, rispetto alla sensibilità del tempo, in particolar modo nei confronti dell’ebraismo, in cui l’accento era posto soprattutto sull’inconoscibilità e la totale alterità di un Dio, di cui non era neppure possibile pronunciare il nome.
Ecco allora comprensibile la perplessità e l’interrogativo, che muove in questo brano: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6, 52).
Solo l’assuefazione alla mensa eucaristica può portarci a perderne la portata rivoluzionaria, a livello concettuale e concreto, riducendola a banale routine.
Nell’estratto, Gesù compie una vera e propria catechesi eucaristica:
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6, 54-58)
Le parole non lasciano posto a dubbi. Non parla di simbolo, non parla di metafora. Parla di realtà; ribaltando la prassi fisiologica, per cui ciò che mangiamo si trasforma in parti del nostro corpo, la realtà spirituale del pane eucaristico è l’esatto opposto: nutrircene, ci consente di assomigliarGli, raggiungendo la vita eterna.
Non solo Dio si è fatto uomo, come noi. Ma lo ha fatto, perché noi imparassimo a farci come Lui, imitandoLo nell’amore. Difficile trovare qualcosa di più scandaloso, rivoluzionario, fuori dagli schemi mentali con cui l’uomo, da sempre, ha racchiuso l’immagine di Dio che – per millenni – ha abitato la sua immaginazione.
Tutto questo avviene in un posto preciso: la sinagoga di Cafarnao (Gv 6,59). Nessuna di queste notazioni di luogo sono casuali.
Cafarnao, infatti, durante la predicazione del Messia, ha rappresentato la Sua base logistica. La cittadina, brulicante di vita, che vive del pescoso mare di Galilea, si è mostrata da subito ricettiva e curiosa al messaggio di Gesù di Nazareth e la sua struttura e l’ospitalità dei primi discepoli hanno risposto alle necessità più concrete del Maestro, durante il suo peregrinante andare.
La sinagoga, inutile dirlo, rappresenta, in piccolo, la spiritualità del Tempio, scossa nelle sue fondamenta da insegnamento “scandaloso” e paradossale, perché va a scardinare alcuni capisaldi del pensiero ebraico del tempo, legati al mondo rabbinico e al culto ufficiale, in cui il timor di Dio si esplicava in una radicale distanza ed in una totale alterità, tanto che il nome di Dio era stato reso impronunciabile, così da limitare la possibilità che fosse pronunciato invano.
Tutte e tre le letture, mettendo al centro la tematica del cibo, instradano la nostra riflessione verso al consapevolezza che corpo ed anima non siano tra loro alternativi, né – tanto meno – contrapposti. Piuttosto, sono, tra loro, coordinati e complementari: non possiamo dire che ci stiamo nutrendo veramente se solo il nostro corpo si abbuffa, così come la nostra Comunione con Dio non può fondarsi solo sui nostri sforzi mentali, prescindendo dalla fisicità. Corpo ed anima necessitano entrambi d’essere nutriti, in una spiritualità che non ci vede come monadi, bensì come fratelli che – insieme – cercano di collaborare, così da poter affrontare meglio le sfide quotidiane, nella ricerca dell’adesione coerente a quella Verità che si è fatta carne per ciascuno di noi.
Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo il Martirio del Precursore, anno C (Proverbi. 9, 1-6; Prima Corinzi. 10, 14-21; Giovanni 6, 51-59 )
Fonte: Parole nuove, don Raffaello Ciccone
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