L’annuncio dell’hostess, quando l’aereo atterra sulla pista di Istanbul, è già un’ampia rivelazione di ciò che si sta per annunciare agli occhi dei pellegrini, venuti quaggiù per (ri)conoscere i primi passi del cristianesimo: “Welcome to Istanbul, meeting point of the world”. Una capitale ch’è mosaico di tradizioni e contraddizioni, un groviglio intricatissimo di modernità e antichità, di volti velati e volti coperti, di cristianesimo e di Islam, Oriente e Occidente. Una capitale che è anche immagine e anticipazione di una terra dove il cristianesimo fu adolescente: le città dei primi grandi concili ecumenici, le prime comunità cristiane, l’eco delle parole di Padri della Chiesa giganteschi e di altrettanti filosofi eruditi. Lo spazio geografico e spirituale dove quell’uomo tribolatissimo che fu Paolo di Tarso diede il meglio di sé, tra applausi, persecuzioni e perplessità: «Uomo molto tormentato – scrive di lui Nietzsche – degno di commiserazione, molto importuno e importuno anche a se stesso» (Aurora). Senza di lui – si accetti o non s’accetti il suo caratteraccio e il suo genio -, il cristianesimo non sarebbe quello ch’è oggi. La Turchia è la casa di Paolo: anche di Giovanni e di Maria. Dunque è la casa dei cristiani: e ritornarci è come ritornare alle sorgenti per assaporare dell’acqua fresca.
Da Istanbul fino alla Cappadocia, attraverso l’antica città di Efeso, Gerapoli e Laodicea. Eppoi Pamukkale, Iconio, la città del sommo poeta Rumi: «Non sei una goccia nell’oceano – scrive in uno dei suoi celebri versi -. Sei l’intero oceano in una goccia». Un modo più aulico per dire all’uomo il crudo realismo messo in scena nella notte di Betlemme: che dentro la sua storia si è nascosto l’Eterno in persona. Dopo quest’annuncio, tutto quello che vedrai, assaggerai, odorerai, sentirai, toccherai, per narrarlo non ti basteranno più soltanto i cinque sensi: occorrerà giocarsi tutto, come degli sbarbati ventenni che sembrano non conoscere il costo del pericolo. Quaggiù, mescolati nel mezzo dei chiaroscuri di una difficile convivenza, appare chiaro che ciascuno traduce il mistero con la parole che possiede. Nella ferialità di storia che sarà sempre da interpretare a quattr’occhi: l’uomo e Dio, mano nella mano, fianco a fianco. O non si comprenderà appieno. Un pellegrino, a mò di condivisione, cala l’asso di una frase di don Giussani una sera al rientro in albergo: «Bisogna avere la pazienza di accettare la prigionia dell’istante per aprirsi all’infinito». Incasso, poi mi chiedo: che cos’è, in fin dei conti, la vita se non una grandiosa avventura verso la luce? Una luce prigioniera.
Impossibile attraversare la Turchia e non sentire il fiatone di Paolo sul collo, il suo prenderti per i capelli e buttarti dentro il mistero di Dio, la sua ansia di portare tutto il mondo dentro il cuore di Cristo. L’aria, da queste parti, è elettrica, eccitante, poetica: questa, come per Paolo, è una terra di verità. Sbarchi con tutta quella bellissima paccottiglie di credenze cristiane, di frasi imparate a memoria, gesti e parole sedimentate dall’abitudine. E, d’improvviso, ti ritrovi Paolo dietro l’angolo di ogni strada: nell’eco di una sua lettera, nell’immagine di un areopago, al solo pensiero di quest’opera di ingegneria spirituale della quale è stato capace quest’uomo: prendere l’avventura del suo Gesù e portarla fuori dalla “sacristia” della Giudea. Senza di lui, il cristianesimo sarebbe rimasta una pia associazione culturale confinata in una regione sperduta dell’Oriente. E Cristo, il suo Cristo, poco più che un illuminato rabbì degno d’essere citato in qualche tesi di laurea in teologia. Paolo, invece, con la bellezza di Cristo ha sverniciato il mondo intero. Esattamente lui, per il quale il cristianesimo, all’inizio, era una pestilenza: “Non disperare mai della misericordia di Dio” ammonirebbe san Benedetto da Norcia.
Ai pellegrini, sopraggiunta la sera, l’acqua sciacquava via la polvere delle pietre, la fiacchezza del cammino. Gli sguardi, però, non mentono mai: “Qui – sembrano dirti – si sta vedendo un qualcosa che continua a guardarci anche quando ce ne andiamo via. Un qualcosa che ci (ri)guarda”. Questa terra, per chi ha a cuore la propria anima l’anima, non sarà mai neutrale: resta un raccordo di sguardi. Lo confidò sant’Ireneo di Lione, nato da queste parti. Quando incontrò Policarpo, originario di Smirne (l’odierna lIzmir), scrisse di essere stato stregato dallo sguardo di chi aveva visto coi suoi occhi gli occhi di chi aveva visto Gesù. Ireneo aveva visto Policarpo – che aveva visto Giovanni, il quale aveva visto Gesù – e, vedendo costui, avvertiva di percepire lo sguardo stesso di Cristo. Pare quasi un paradosso che proprio quaggiù, dove tanti sguardi sono velati, lo sguardo abbia a che fare con la Verità. Certi sguardi sono la sua versione maschile da quanto le assomigliano: sono franchi, non usano giri di parole, stordiscono, ti depredano e poi ti abbandonano sul ciglio della strada con gli occhi lividi e le ginocchia abrase. Per questo abbiamo paura della verità di certi sguardi. La invochiamo, ne riconosciamo il primato, ci mettiamo alla ricerca di lei ma poi, quando essa si rivela, rimpiangiamo la bambagia dell’incertezza. Il rimpianto di quando – non avendo risposte – potevamo sognare sulle risposte.
Quando l’aereo, dopo dieci giorni “turchi”, si rialza nei cieli in direzione del nostro bel paese, nelle menti dei pellegrini giace un pensiero. È datato negli anni ’20 del secolo scorso, ma sembrerebbe l’incipit perfetto per una Chiesa che è in fase di sinodo. Una sorta di cartolina spedita dalla terra dei primi concili, ad una Chiesa che si sforza di riconnettersi con le sorgenti, per non perdere del tutto la sua parola: «Niente è tanto incredibile come la risposta data ad una domanda che non si pone. Mezzo mondo ha considerato la risposta cristiana al problema della storia come follia perchè non aveva domande cui l’avvenimento cristiano fosse la risposta. Non aveva desideri che tale avvenimento potesse realizzare» (R. Neebhur, Il destino e la storia). Anche Paolo, all’inizio, tacciava tutto questo di sciocchezza: rileggeva il tutto con estrema sciocchezza. Per giudicare la vita di un uomo, però, occorrerà sempre andare a vedere bene com’è avvenuta la sua morte: e Paolo, a conti fatti, non è morto dentro una sauna. Viaggi così saranno sempre più pericolosi da compiere. Come, nello sport, non esiste momento più eccitante dell’esibizione che annuncia l’entrata in scena di un nuovo talento, così è dell’anima: non esiste momento più grazioso di quando tutto sembra perduto, ed è invece sul punto esatto di ritrovarsi. Dopo essersi perduto. È la vita.
(da Il Sussidiario, 10 ottobre 2023)
2 risposte
Caro Don Marco
Come ti avevo detto in aeroporto, soprattutto all’inizio, mi sono sentito come bloccato in un’armatura. Armatura nella quale un po’ mi sentivo al sicuro e un po’ bloccato anche nei movimenti più banali. Mentre tu, come un campione del ciclismo, percorrevi i tornanti tortuosi del ragionamento e le ardite rampe della fede.
Alla fine di una delle tue prime omelie, ho scritto queste poche righe.
Come un cesellatore
Incidi il mio duro cuore.
Trasudando tutte quelle notti insonni,
alla ricerca di quel ronzio
che non si quieta.
Alla fine , finalmente
come un’ atleta stremato ,
ti accasci all’arrivo
del PENSIERO,
quello più profondo.
E io solo ,
con le schegge del mio cuore,
tra le mani.
Non vorrei farti solo dei ringraziamenti che ti meriti tutti, ma che forse hai sentito tante volte , per come sei , per quello che fai , per come lo fai: insomma per il Marco e don Marco che sei.
Ma anche salutarti dicendo che spesso penso a quella curva che magari ho passato tante volte tenendo gli occhi chiusi.
Un saluto
Fausto
Don Marco il tuo diario prende cuore e mente… grazie..