«Lo insegniamo ai bambini, ma poi lo dimentichiamo!» ebbe modo di notare Papa Francesco. GRAZIE. Una parola piccola, breve, semplice, ma quanto mai preziosa e, talvolta, impegnativa.
«La gratitudine è un dovere che va reso, ma che nessuno ha il diritto di aspettarsi» (Jean – Jacques Rousseau)
Non si tratta di ottenere un “pareggio di bilancio” tra dare e avere, né una pretesa, bensì, piuttosto, dedicare la delicatezza dell’attenzione a chi ci fa del bene, ricordando che esso “costa” sempre qualcosa a chi lo compie. Non perché il dono sia rinfacciato, ma perché, offerto nella gratuità, possa diventare paradigma, per chi lo riceve, del modo più bello di darsi, cosicché chi ha ricevuto possa – a sua volta – offrirsi a qualcun altro, oltre che mostrare riconoscenza a chi gli è stato d’aiuto. La riconoscenza è, infatti, il primo passo necessario a mettere in pratica la gratuità.
Anche il Vangelo (Lc 17, 11 – 19) ci dà una mano a comprendere quanto sia toccante la gratitudine, quando si mostra come reale e sincera espressione di riconoscenza del bene ricevuto.
Un giorno, una decina di lebbrosi gli si fa incontro. Gesù, come capita in altre circostanze, non li guarisce subito, ma promette una guarigione nel frattempo, aggiungendo una clausola precisa: che andassero a mostrarsi ai sommi sacerdoti. Questo può stupire, vista la tendenza del Maestro a mantenere, a lungo, il segreto messianico e ad essere, per di più, abbastanza restio a concedere miracoli, considerandoli segni della sua provenienza divina, ma non l’essenza del proprio essere in mezzo agli uomini. Nel caso specifico, le direttive del Maestro avevano un’importanza molto concreta: perché fossero veramente di nuovo liberi, quegli uomini avevano necessità di vedere riconosciuta la propria guarigione dalle autorità religiose, per tornare a far parte della comunità religiosa giudaica: non bastava guarire dalla lebbra, era fondamentale che fossero creduti guariti dalla comunità, tramite il parere dei sommi sacerdoti. La lebbra era molto più di una malattia contagiosa, a quell’epoca: era uno stigma, per cui esistevano villaggi in cui si raccoglievano tutti i malati di lebbra, in una sorta di “slum” ante litteram. Nella società dell’epoca, erano gli ultimi degli ultimi. Non solo non ricevevano sostanzialmente alcuna assistenza sanitaria, ma vivevano nell’isolamento più totale rispetto al resto della società civile.
Tant’è vero che l’incontro avviene alle porte della città, gli uomini si avvicinano, ma “fermatisi a distanza, alzano la voce”: sono consapevoli che il toccarli, per un sano, significa attentare alla propria purezza. Per questo, pur volendo essere guariti, non si avvicinano. È curioso come, di dieci lebbrosi, tutti guariti, l’unico che sia tornato a rendere grazie sia un samaritano, cioè proprio chi non sarebbe comunque rientrato in seno alla comunità religiosa, anche dopo la propria guarigione. e poco importa se via storicità assoluta in questo dettaglio, oppure marcato simbolismo da parte dell’evangelista. La sua utilità risiede nel ricordare, agli uomini di ogni tempo, lo splendore dell’autentica riconoscenza.
Attribuire a qualcuno la causa di un bene significa anche affermare, di contro, la propria non-autonomia: ecco perché è difficile ammetterlo, innanzi tutto a se stessi. Ci dà fastidio constatare di aver-bisogno. Il nostro ego fatica a sopportare questa consapevolezza e tende, istintivamente, a rigettarla, forse carpendone i rischi. Perché significa mostrare il fianco, mostrarsi vulnerabili e sappiamo bene quanto alto possa essere il rischio di ciò, specialmente nei campi più competitivi della nostra società.
In realtà, chiedere aiuto si dimostra successivamente liberante, come è sempre l’autenticità: non siamo supereroi e abbiamo bisogno gli uni degli altri, costantemente, nella nostra vita. Dai motivi più banali a quelli più complessi. È la vita che ce lo insegna: l’elettricista o l’idraulico sistemano i guasti casalinghi in cui non riusciamo ad intervenire, il contadino ci garantisce la verdura che mettiamo nel piatto, il manutentore della caldaia ci assicura di non rimanere al freddo… l’elenco potrebbe allungarsi di molto: per quanto ciascuno di noi possa avere qualche competenza, ci sarà sempre un settore in cui dovrà “alzare le mani”, ammettendo la propria ignoranza. E viceversa.
La reciprocità, del resto, prende forma come sommatoria di più gratuità. Io non faccio un favore perché esigo di avere un ricambio, ma le persone di cui so di potermi fidare sono quelle che hanno saputo avere a che fare con la mia vulnerabilità, senza approfittartene. Trovare qualcuno che mi aiuti ad accogliere il mio limite, promuovendo la mia autenticità è quindi uno tra i doni più preziosi che si possa ricevere.
La vita intera è un dono e viverla con questa consapevolezza credo aiuti ad assaporarne il valore infinito e non commensurabile. Imparare a vivere la gratitudine, nella quotidianità, può essere una palestra inizialmente impegnativa per il nostro ego, ma, con il tempo, restituisce quella serena libertà che potrà farci assaporare il gusto più autentico dei nostri giorni.