danzamacabrassdeDella morte non bisogna parlare, specie ai bambini. Non piangere davanti a occhi indiscreti… guai!

E finiamo col tenerci dentro questa paura innata e naturale e nasconderla come una vergogna.

Della morte abbiamo paura, sì, non neghiamolo, non prendiamoci in giro e in fondo ciò è abbastanza normale. Probabilmente, al contrario di quello che è il pensiero comune, affrontare l’argomento sarebbe un aiuto e non un ostacolo al superarla. Ma noi preferiamo non pensarci.

O, piuttosto, “anestetizzarlo” tramite festeggiamenti volti a trasformare la morte in uno spauracchio, nell’illusione che basti questo a ritrovare la serenità che crediamo di aver perduto per aver pensato che potesse entrare nella nostra vita e nella nostra quotidianità.

Ha colpito la partecipazione popolare al lutto recente che ha colpito la famiglia Simoncelli. Tuttavia, ha forse colpito ancora di più come e quanto fossero coinvolti i bambini. Che chiedevano, che s’informavano. La morte, spesso, non era entrata direttamente nelle loro vite, prima di quel momento. E, in quel momento, avvertivano – forse per la prima volta – quel “vuoto” che provoca il “mai più”. Mai più Marco Simoncelli sulla moto Gp, durante le corse che magari guardavano con mamma e papà. E quel lutto in mondovisione è stata l’ennesima occasione di riconferma: non è possibile – nonostante tutti gli sforzi possibili – tenere la morte lontana. Allontanandola, con ribrezzo e noia, al suo presentarsi alla porta del nostro quotidiano, mentre noi vorremmo starcene tranquilli. Quasi che questa sia la massima aspirazione della nostra vita; quasi che sia possibile esserlo, davvero.

Non è possibile far finta di nulla. È inutile evitarla. È illusorio credere di poter scegliere che essa non faccia parte di noi, perché in realtà è già parte di noi, dal momento in cui siamo nati. Prendere consapevolezza di questo dato di fatto è – forse – l’unica scelta davvero utile. Unita all’osservazione inevitabile di non essere – completamente – padroni della nostra stessa vita (se davvero lo fossimo, potremmo decidere anche come, quando e di che morte morire).

Inutile evitare di parlarne, inutile questo pudore un po’ ipocrita di parlare di tutto, tranne di ciò che accomuna ogni uomo che è nato. L’altro capo del filo, che, prima o poi, tutti dovremo raggiungere. Tardi o presto, volenti o nolenti, è l’unica cosa certa a questo mondo.

E, se la morte ci appartiene, è (forse) solo il modo con cui viviamo (avvicinandoci – è una realtà! – ogni giorno un po’ di più a quell’ora) a decretare chi siamo e siamo stati e quale segno lasceremo su questa terra. Nella speranza che non sia solo un segno profondo, ma – se possibile – sia un solco profondamente positivo. Perché è assolutamente necessario comprendere che, se anche – tra le furbizie politiche e gli stratagemmi per “sopravvivere” a questa giungla di mondo – il compromesso o il “basta che se ne parli” risulta avere una qualche utilità pratica, ciò non serve o – in ogni caso – non è abbastanza, se abbiamo per obiettivo la ricerca di un Bene più profondo e duraturo.

Se tutto ciò fosse bruscamente e tremendamente interrotto dalla muraglia della morte, senza possibilità di replica, resterebbe inaccettabile. Ma non inaccettabile perché non è possibile accettarlo. Piuttosto, perché lo sentiremmo in netto ed inconciliabile contrasto con quei desideri, aspirazioni e aspettative che formano la natura dell’essere umano.

Una volta che ci rendiamo conto dell’ineluttabilità della morte, ci diventa ancora più indispensabile trovare un senso al nostro vivere. Perché accettare che tutto si risolva in un ciclo continuo (e “animalesco”) di sonno-veglia, lavoro – vacanze, salute – malattia ci risulta ostico, se non quasi impossibile. Lo troviamo inadeguato, non adatto alle proporzioni dei nostri ideali, all’altezza dei nostri sogni, alla grandezza dei nostri progetti, alla fiducia nei nostri “per sempre”, alla profondità dei nostri sentimenti.

E Cristo porta una “speranza certa” a questa ricerca, che tuttavia non è possibile sia unicamente riservata a chi crede in Gesù.

Questa ricerca di senso ha carattere di urgenza, motivo per il quale è necessario sentirci tutti chiamati alla mobilitazione, personale, per un rinnovato impegno ad una profondità del vivere.

È necessario. Per combattere il rischio di vivere, come se non dovessimo vivere mai, che però ci porta a morire come se non avessimo mai vissuto…

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