Dal ferro-cemento della galera di Padova alla solennità gagliarda di Piazza San Pietro. Fin dentro le segrete stanze di un Papa il cui Dio porta, come primo-nome, quello di “Misericordia”. E’ stato il viaggio di Zhang Jianqing – detenuto cinese di trent’anni divenuto cristiano con il nome di Agostino – che con la sua storia ha acceso di colore l’anteprima mondiale del libro-conversazione di papa Francesco. Una storia-da-galera come preludio delle parole di un Papa? Pacifico, dal momento che il peccato è «quasi un gioiello che gli possiamo regalare per procurarli la consolazione di perdonare». Non fosse Vangelo, parrebbe insulto al buon senso: siccome lo è, nessuno obbliga a seguire Cristo.
Un detenuto cinese, tra un cardinale veneto – il segretario di Stato – e un comico toscano, il Benigni dall’ironia calzante e spiazzante: sin quasi dantesca. Ha stupito quell’intruso, apparentemente fuori-posto, tra i due: stupore, però, ch’era solamente di coloro che ancora faticano a mutare le prospettive di un Papa che, lentamente ma con solenne gestualità, sta riavvicinando l’uomo al Cielo, senza farlo sentire estraneo. Perchè se il peccato ha le vesti solenni di un gioiello, «si fa i signori, quando si regalano gioielli, e non è sconfitta, ma gioiosa vittoria lasciar vincere Dio» conclude Francesco. “Lasciar vincere” non è affatto “vincere”, ma è molto più vittoria di chi vince una volta e, per questo, s’immagina vincente in eterno. Chi vince, spesso, dimentica le logiche sananti della sconfitta: «Anno dopo anno diventavo sempre più cattivo, iniziavo a litigare con i miei genitori perchè non mi davano i soldi per potermi divertire», ha raccontato Agostino di fronte ad una platea commossa, Benigni compreso, dalla sofferta verità di una storia che, toccata dalla Misericordia, non è più stata la stessa storia di prima: più storia, meno leggenda, ancor meno favola, quelle che sovente gli uomini amano raccontarsi per dirsi che al cuore non manca nulla.
Eccolo l’affondo del Cielo: dare un nome a quella mancanza che era un anticipo di disperazione, la più tracagnotta delle solitudini: «In quel dolore di quel momento ho capito che mi ero innamorato di Gesù, che questo era vero e non potevo più farne a meno». Eggià: quando l’oscurità è vertiginosa, l’uomo avverte una sete delirante di luce: «Nasceva in me il desiderio che questa sofferenza si potesse trasformare in verità», ha confidato Jianqing. Negli attimi del tracollo, sono pochi a rimanerci: sovente c’è soltanto Dio a vedere quelle grida, vittime e carnefici di loro stesse. C’era Lui, l’Uomo che insegnò come fare in caso di ferita che spurga: non leccarsi la ferita, ma accettare che ci sia qualcuno che la pulisca. Per poi lasciarci una cicatrice come memoria: di uno sbaglio, di una caduta, di un’illusione illusoria. Le cicatrici, però, sono ferite ricucite: è un passato che muta d’aspetto. E, per chi un giorno s’imbatterà in esso, diventa segnale stradale: «Bisogna entrare nel buio – scrive Francesco -, nella notte che attraversano tanti nostri fratelli». Dentro, non attorno.
Un giorno il detenuto verrà scarcerato. Sarà libero? Mica sempre. Si esce dalla galera, ma la condanna potrebbe rimanerti cucita addosso. C’è un solo modo per uscirne liberi davvero: rabberciare quell’antica condanna fino a farla diventare un gioiello, un quasi-tesoro da portare non tanto come vanto ma come memoria di una storia ch’è rinata sotto i colpi del peccato. Come quella di Agostino, assai simile a quella di tanti altri. Perchè “misericordia” scritta con l’iniziale minuscola potrebbe anche trarre in inganno le anime fragili, dubbiose. Scritta con l’iniziale maiuscola, invece, diventa un caso-serio che, ai tempi della galera, potrebbe anche fare di una tomba un trampolino. Un vero agguato.
(da Il Mattino di Padova, 17 gennaio 2016)
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