Correre per somigliare alle talpe in primavera: per salire verso l’alto, per uscire dalla mediocrità del quotidiano, per affinare un sogno fino a farlo diventare splendida realtà. Correre non è solo una vana ricerca di prestazioni, un corteggiamento truccato ad una mèta ostile, un tentativo di mostrarsi infallibili: potrebbe essere semplicemente un modo per dimostrare a se stessi d’esserci, d’esistere, d’accendersi per un brivido. Correre per me non è mai stato vincere, ma scoprire la bellezza di ciò che incontro nel mio percorso. La maratona è il pretesto, la carota, la giustificazione: a me interessa ciò che scopro e faccio scoprire lungo il cammino.
Correre è la forma infinita dell’esistenza: vivere, amare, combattere, pensare, rischiare, migliorare, innamorare, sudare, far appassionare, faticare, sognare. Una lunghissima serie di verbi coniugati all’infinito: il tempo che allunga le azioni e le mette a confronto con l’Eterno.
La mia vera mèta.
Correre una maratona è questo. Ma è infinitamente di più. Perché lei è una dama smaliziata: avanza perché tu t’avvicini, ma nel mentre t’addentri verso di lei, s’inabissa nell’oscuro e scompare. Per poi riapparire altrove e rimettersi a danzare, fluttuare, stregare. E tu divori chilometri per inseguirla, mangi la polvere del sentiero, ne bestemmi la sua bellezza, cerchi di spostare il sogno. Ma non ci riesci perché lei è bella, troppo bella: è quasi la vita stessa. E allora lei diventa il troppo che incoraggia e scoraggia: troppo caldo, troppo freddo, troppa neve, troppo vento. Troppo sonno per partire. No: non c’è armistizio in quest’eccitazione perché lei fa quello che vuole, perché chi nasce bello può tutto. Prendere o lasciare. Ti prende e ti sposta, ti trapianta altrove, ti spinge se ti fermi, ti massacra se le corri incontro, ti strega se la maledici. E’ una tempesta, un fulmine, una freccia di Cupido. E’ una spada di Damocle e tu cerchi riparo: sotto un albero, al limite di un pagliaio, sotto una tettoia. E se il fisico è pesante vomiti perché sei un proletario di fronte a lei: vomiti e sporchi la polvere, ti guardano tutti, il fisico chiede la resa, il Calvario in confronto era un giardino. Lei ti succhia, ti violenta, ti massacra, ti toglie la voglia e se ne infischia se sei ridotto ad uno straccio. Dici “basta, mi arrendo”.
E lei ritorna: bella, spietata, malefica. D’una bellezza saporita.
E tutto è rimandato.
Riparte l’intrigo. Una, due, tre. Infinite volte.
Manca poco alla partenza per la Grande Mela. Avverto l’entusiasmo di molta gente, forse troppa: di quelli che c’hanno creduto da subito come il mio Peppone. Di chi, manovale per scelta e passione, s’è rimboccato le maniche e ha messo le ali sulle nostre spalle. Ma anche di quelli che si sono aggregati strada facendo perché incuriositi da una fede in cammino. Creativa e speriamo credibile.
In questi giorni c’è un po’ di agitazione perché tutto sembra essere troppo bello.
Bella la corsa, bello il sudore sulla fronte, belli i muscoli affinati da ormai mille chilometri di combattimento. Ma bella sopratutto l’altra faccia della maratona. Quella che sta nascendo nelle carte, la creazione di personaggi ai quali mi sono affezionato, la frequentazione in loro compagnia di notte a immaginarli e di giorno a dare loro forma, energia e vita. Un viaggio di scoperta del mondo nascosto della maratona, scritto e vissuto in tempo reale da chi corre scrivendo. O da chi scrive correndo.
Una grande fortuna poter fare il lavoro che sognavi da bambino. Un lavoro che supera la dimensione dei sogni. Un lavoro colorato.
Una fortuna che non ho mai fatto nulla per tenermela in tasca.