Tutt’e tre le letture proposte dalla liturgia convergono nella comune domanda di interrogarsi su chi sia Cristo e che ruolo abbia, nella storia della salvezza.
Preconizzato dall’Antico Testamento, in particolar modo da Isaia (Is 11, 1-10), l’autore della Prima Lettura, ciò che è emerge è il suo carattere di Atteso delle genti, Oggetto del loro desiderio, capace di capovolgerne le aspettative: di Lui, si sottolinea infatti la mansuetudine e la pacificazione tra opposti (lupo/agnello; leopardo/capretto; vitello/leoncello; mucca/orsa). Si tratta di figure che vedono un riscatto del più fragile, perché il Signore prenderà le parti degli “umili della terra”, facendosi garante, in prima persona, di giustizia, fedeltà, equità. Ecco, quindi, che la sua venuta diventa – in certo qual modo – occasione di riscatto per i “dimenticati”, i non considerati, quelli che, per vari motivi, erano rimasti ai margini, accantonati o scartati. Il Messia atteso rappresenta, quindi, una seconda possibilità, proprio per chi si era ormai rassegnato a non meritarne altre, per chi aveva rinunciato persino a ricevere l’onore delle armi, arreso alla propria impotenza ed incapacità di ribellarsi alle soverchierie.
Anzi, sembra quasi che la venuta del Messia sia proprio, particolarmente, per queste categorie. Per quegli scarti, che Cristo pare prediligere perché lo accompagnino nel diventare pietra angolare di una nuova visione sul mondo, nella quale la prospettiva è quella di Dio, che non chiama i più qualificati, ma rende qualificati quelli che chiama, perché i suoi occhi prediligono i “poveri di Jahvè”, quelli che, come la Vergine e il suo sposo, Giuseppe, sanno fare un passo indietro dal proprio ego per accogliere la Parola di Dio sulla propria vita, anche quando non rispecchia le nostre aspettative e – anzi – ci spiazza – come un rigore tirato con lo “scavetto” (detto anche “cucchiaio”).
L’Epistola, avvalorando la discendenza cristologica dal tronco di Iesse e dalla tribù di Giuda (il riferimento patronimico risulta irrinunciabile, in una lettera che si rivolge a cristiani provenienti dall’Ebraismo), soffermandosi, però, in particolar modo sul significato Sacerdotale di Cristo. Gesù di Nazareth è presentato come sommo sacerdote di un’alleanza nuova e migliore. Paragonato a Melchisedek, antico re di Salem (che compare, fugacemente, in Genesi 14, 17-20, per poi essere ripreso dal salmo 110), prefigurazione di Davide, a sua volta prefigurazione del Messia stesso, rappresenta una figura sacerdotale nuova, diversa da quella ereditaria della stirpe di Levi, maggiormente gradita a Dio. Il Messia, Re e Sacerdote, è l’Agnello sacrificato per amore, che vive in eterno, che eternamente regna con il Padre e lo Spirito e, pur mantenendo i segni della Sua Passione, intercede in nostro favore. È da lui che ha origine la dignità sacerdotale e il potere che Dio concede alla Sua chiesa, perché possa condurGli tutta l’umanità: nessun uomo è perfetto, per cui nessuno potrebbe ardire di presentarsi al cospetto di Dio senza “togliersi i sandali” (cfr. Es 3,5); ogni atto sacro che la Chiesa compie, è sempre per Cristo, con Cristo, in Cristo che, tramite Lui, ci ha reso Suoi fratelli, concittadini dei santi e familiari di Dio (Ef 1, 19).
Nel brano di Giovanni che la liturgia propone, il «Tu, chi sei?» è domanda rivolta al Battista, di primo impatto; eppure, indirettamente, anche in questo caso, abbiamo modo di riflettere su chi sia Cristo e che ruolo abbia. Giovanni Battista – che abbiamo già avuto modo di avvicinare in altre domeniche di Avvento (sia di rito ambrosiano che romano) – è figura di spiccato carisma, di profonda spiritualità, di vigorosa coerenza, cui, però, sappiamo non mancano anche momenti di umanissimo dubbio (ricordiamo il suo interrogativo: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro», lasciato in consegna ai discepoli in Mt 11,3): non stupisce, quindi, che, di fronte a una simile statura profetica (riconosciutagli dallo stesso Cristo), molti, confusi, siano arrivati a chiedergli, espressamente, di “dichiarare la propria identità”.
«Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me, ed era prima di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1, 27)
Mi colpisce sempre la ruvida schiettezza del Battista. Avrebbe potuto approfittarsi del credito che gli era attribuito, per ingigantirsi, porsi su un piedistallo, farsi grande agli occhi di chi si affidava a lui. E invece: no. Nemmeno un po’: questa fiducia diventa, per lui, motivo di consapevolezza della propria responsabilità!
Davvero, di lui, la definizione più calzante è: “amico dello Sposo”. Ma amico vero. Di quelli capaci di gioire per la bravura dell’altro, per il merito e le competenze che dimostra come, se non di più, delle proprie. Capace di avere gli occhi che brillano, pensando “io Lo conosco” di fronte alla rivelazione di Cristo che – lo sapeva – avrebbe messo in ombra l’opera del Precursore. Era questo il destino che gli competeva e l’aveva accolto, con serenità, con ardore e – anche – con impazienza di veder sorgere quel Regno a cui aveva preparato la via.
Proprio nella sua risposta, che rimanda a Cristo, il Battista ci aiuta a capire chi sia Cristo per noi. Tentati dalle prestazioni, dai numeri, dai risultati immediati, forse, dovremmo imparare da Giovanni Battista quel passo indietro, necessario per contemplare la bellezza di quel Messia che, pur non avendo alcun bisogno di nessuno, decide che la nostra presenza gli è indispensabile, sceglie, con libertà ed amore, di avvalersi della nostra collaborazione, per edificare la Chiesa, Sua sposa.
Rif: letture festive ambrosiane, nella V domenica di Avvento (anno B)
Fonte: Parole nuove, don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini
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