Educare la mente. Passando per il cuore
Lavorare nel mondo della scuola, oggi. Una risorsa, una sfida, un’opportunità?
Lo abbiamo chiesto a chi vi lavora da anni, a contatto con studenti, genitori, presidi, personale amministrativo, richieste ministeriali: tutto quanto rientra, insomma, a piena titolo nella vita quotidiana di un insegnante.
1. Quali ricordi conservi della tua infanzia?
Ricordo tutto. È stata un’infanzia un po’ particolare, nel senso che sono sempre stato attratto dalla cultura, per cui, se i miei compagni andavano a giocare a pallone, io leggevo. Di conseguenza, credo che tutta la mia vita sia stata, involontariamente (poi la predestinazione esiste, secondo me), guidata verso ciò che è stato il mio traguardo, cioè insegnare. Mi sono preparato sin da piccolo, perché mi è sempre piaciuto studiare (è una malattia, lo so!). Ho sempre visto la mia vita come una costruzione, finalizzata al raggiungimento di certi obiettivi, che poi si sono concretizzati concretamente in questa professione, che credo fosse alla fine l’unica cosa che potessi fare.
2. Com’è stata la vita da studente?
Io ho sempre studiato i miei docenti. Sono abbastanza analitico e, quando ho di fronte una persona, la devo vivisezionare per bene. Credo veramente di avere studiato le figure educative incontrate nella vita, fin dalle elementari, giudicandole. Ciò dà molto fastidio: infatti, non ero molto simpatico ai miei insegnanti. Ricordo che dicevo «io questa cosa, se divento insegnante, la faccio… quest’altra non la faccio». Senza dubbio, il mondo della scuola ha rappresentato per me una grande attrazione, anche se devo dire che preferivo studiare per conto mio. Credo che l’80% di quello che so me lo sia costruito io, con il mio desiderio di sapere, con i miei interessi. Infatti, all’università mi sono trovato molto bene, perché potevo gestirmi in autonomia. Sono un po’ individualista, da questo punto di vista. È stata importante, comunque, la mia esperienza scolastica e ho trovato professori validi. Non nascondo che il mio modo di insegnare è molto simile a quello del mio insegnante di italiano del liceo (perché è naturale prendere dei punti di riferimento). Poi ci ho messo del mio, naturalmente.
3. Quando hai capito di voler fare questo lavoro?
Quando sono entrato la prima volta in una classe. Ero ancora studente all’università, avevo dato una decina di esami e mi avevano detto che, presentando il libretto che attestasse di aver dato almeno dieci esami, era possibile iniziare a fare qualche ora di supplenza nelle scuole. Un po’ perché mi attirava, un po’ per gravare meno sui miei genitori, ho presentato queste domande. A quell’epoca al mattino stavo a casa a studiare per accelerare i tempi e una di quelle mattine mi arriva una telefonata alle 9 e 10, da parte della scuola media del mio quartiere che chiedeva se fossi disposto a fare una supplenza. Ho chiesto «Quando devo venire?» e la risposta è stata «tra dieci minuti». Non ho avuto tempo di pensare: mi sono preparato, ho preso la macchina, sono arrivato alla scuola, sono entrato nell’ufficio del preside, che mi ha detto che avrei avuto una seconda media per una settimana. E lì mi sono trovato, nel giro di quaranta minuti, in una classe, davanti a una ventina di ragazzini che vedevano sto sbarbatello entrare e guardarli con aria forse un po’ smarrita: sorridevano, ho detto la prima cretinata che mi è venuta in mente e mi hanno applaudito. Lì ho capito che ero in grado di instaurare un rapporto con i ragazzi. È stata una bellissima esperienza, perché loro si sono fidati subito di me. Mi è capitato in tanti anni di suscitare la stessa reazione, quindi è evidente che ho la vocazione. Quindi, in quel momento ho capito che sarebbe stato il mio mestiere.
4. Possiamo quindi parlare di vocazione all’insegnamento?
Insegnare è una vocazione. Se ce l’hai, bene; altrimenti fai un altro mestiere, perché fai solo danni. E, parlando della mia esperienza (sia come studente che come docente), mi sono accorto che chi non ha la vocazione può fare seri danni. Il mio è un mestiere pericoloso. Hai davanti delle persone da formare. Se sbagli, crei conseguenze negative che poi pagano gli studenti, non gli insegnanti. E io ne sono stato testimone, anche rispetto ad alcuni miei compagni di scuola.
5. Cosa ti piace del tuo lavoro?
Il contatto con le persone. Oltre all’aver approfondito – a livello personale – una materia, come la letteratura italiana, che amo moltissimo. Io ho letto tantissimo, soprattutto nel periodo che va dai 10 ai 18 anni, orientandomi secondo il mio gusto o le suggestioni esterne (a quel tempo, in televisione trasmettevano sceneggiati tratti dai grandi romanzi come I promessi sposi, I miserabili o David Copperfield). All’università, leggi tante opere, ma per superare l’esame, con l’obiettivo del voto, quindi magari gusti un po’ meno la lettura stessa. Insegnare letteraria mi permette di scoprire in un’opera letteraria qualcosa di nuovo. Un esempio sono I promessi sposi: avendo quasi sempre una seconda superiore, la rileggo praticamente ogni anno, eppure ogni volta riesco a trovare qualcosa di nuovo. A livello umano, il rapporto con i giovani è fantastico: ti fa sentire giovane, al passo con i tempi, ti fa sentire vivo. Ed è una grande fortuna, questa.
6. Cosa eviteresti volentieri?
La burocrazia che sta intorno alla scuola, questo apparato creato intorno ad essa, per cui è necessario verbalizzare tutto.
7. Il tuo lavoro ti fa stare molto a contatto coi ragazzi. Trovi differenze tra quelli di ieri e quelli di oggi?
Sì, è la logica della vita. L’uomo dirà sempre che le nuove generazioni peggiorano. In realtà, non credo si tratti di un peggioramento, ma di un mutamento delle condizioni e delle situazioni. Altrimenti, a furia di peggiorare, dovremmo essere nell’abisso più totale. Certo, sono cambiate molte cose. Io, ad esempio, non ho molta simpatia per internet e i social network: questo spiattellare i fatti privati su Internet mi pare sconvolgente. Per me, il privato è privato. Ma per tanti ragazzi è normale.
Probabilmente, tra qualche anno ci saranno altri cambiamenti che faranno dire agli adulti di domani: «i miei tempi erano migliori!».
8. Ci sono problemi diversi che devono affrontare gli adolescenti in crescita del giorno d’oggi? Quali sono?
Sono esposti a più pericoli. La droga, ad esempio. Ai miei tempi era un fenomeno limitato. Io non me ne sono nemmeno accorto fino ai tempi dell’università. Sarò un ingenuo, ma fino a quell’età in sostanza non ne avevo sentito parlare, era un fenomeno a me ignoto.
Poi, a quell’epoca c’era un’educazione diversa. C’erano maggior rispetto per l’adulto, un linguaggio più elegante e maggiore rispetto dei ruoli.
Spesso, la difficoltà maggiore risulta essere proprio il rapporto con i genitori: in molti casi si rivelano ansiosi nei riguardi dei figli, troppo protettivi e incapaci di concedere loro il giusto spazio per crescere.
9. L’aspetto educativo (il fatto cioè che un docente non sia chiamato solo a trasmettere nozioni, ma porre attenzione alla crescita umana in senso totale) rende più o meno difficile l’insegnamento?
Dare nozioni è un aspetto importante, ma se non è accompagnato da un’attenzione rivolta al soggetto, non serve a niente. Io dico sempre che, per arrivare alla mente delle persone, bisogna passare per il cuore. Bisogna far capire che quello che stanno compiendo non lo stanno facendo per ottenere un voto (sì, è importante anche quello, naturalmente: tutti ci teniamo!), ma è fondamentale per la loro crescita, per la loro formazione. Perché puoi fare tutta la fortuna di questo mondo, ma se non hai una base culturale, rimani comunque una persona incompleta, perché la cultura ti dà la possibilità di saperti giostrare bene nella vita: è un’arma bellissima e potentissima, perché basata sull’intelligenza e sulla preparazione. Se tu badi solo che le persone sappiano una materia, sbagli: compi solo la metà del tuo lavoro.
10. Quali sono le soddisfazioni che regala questo mestiere?
Vedere i miei ragazzi cresciuti, che si sono fatti una posizione o che cercano di farsela, che si sono sposati, che hanno avuto dei figli. Con alcuni ex-alunni c’è proprio un rapporto di amicizia. Soprattutto, vederli sorridenti. In quelli coi quali ho mantenuto contatti (non l’ho mantenuto con tutti i 500 studenti che ho incontrato nella mia carriera d’insegnante), ho visto soddisfazione e gioia. Questa è la più grande gratificazione, perché per me sono come dei figli. Tutti.
Ho lasciato e sto lasciando qualcosa. Perché, secondo me, il nostro compito – nella vita – è trasmettere.
11. Quali sono le persone che hanno contato di più nella tua vita?
Sono tre. Due sono i miei genitori. Credo che non esistano persone che ci possono capire come i nostri genitori. Se rinascessi, li rivorrei. Tutt’e due. Soprattutto, mi hanno lasciato sbagliare. E questo è importantissimo, perché si impara molto di più dagli sbagli fatti che dai successi ottenuti. Loro sono stati di fianco a me, stando attenti che non mi “bruciassi”, ma lasciandomi lo spazio necessario a sbagliare.
La terza persona è il fondatore di questa scuola, don Carlo Calori, che ha creduto in me e mi ha permesso di vivere questa meravigliosa avventura e di scoprire la mia vocazione (la scoperta definitiva è avvenuta proprio tra queste mura). Qui, giorno per giorno, mi sono trovato a combattere la mia battaglia. Di crescita personale e di aiuto alla crescita degli altri.
12. Come hai conosciuto la realtà di questa scuola, che, essendo piccola, non è molto nota?
Io devo dire che sono un “raccomandato”. Avevo uno zio, che era cugino di secondo grado del papà di don Carlo; un giorno questi mi disse: «Dai, vieni, ti faccio conoscere mio cugino!».Così mi portò in via Magliocco (seconda sede del Montini), a sentire una conferenza, nella quale figurava tra i relatori anche don Carlo. E, alla presentazione fatta da questo zio, in cui figurai come studente di Lettere incamminato verso la laurea, don Carlo commentò: «Bene, bene. Ne terrò conto, se avrò bisogno». Rividi nuovamente don Carlo dopo la laurea e mi ribadì la sua disponibilità. Non passò molto tempo e ricevetti una telefonata. Mi sono introdotto qua, umilmente (e per me dire umilmente è sempre impegnativo), cercando di seguire i suoi consigli e penso di non averlo deluso.
13. Come valuti i principi che la animano?
Quando lessi il progetto educativo di questa scuola, illustratomi da don Carlo (rettore del Liceo Montini) e dal prof. Quaglino (preside dello stesso), mi sono detto: «Questa è la scuola in cui avrei voluto studiare io!». Questo è indice di quanto mi sia trovato concorde con i principi educativi di questa scuola. La delusione avuta talvolta, come studente, era di una scuola un po’ lontana dalla realtà degli alunni, un po’ fredda. Al contrario, pensare una scuola con un obiettivo educativo a 360°, che mettesse in rilievo il valore specifico dell’alunno era per me il prototipo della scuola ideale, che avrei voluto incontrare nella mia vita (e che, fondamentalmente, non ho incontrato, nella mia esperienza di studente, sia alle scuole pubbliche che alle private, pur avendo avuto esperienze positive, nel complesso). Penso che sia in sostanza un problema di persone, più che di scuole, vale a dire: in una scuola pubblica è possibile incontrare un insegnante splendido, così come in una privata ne puoi trovare uno pessimo.
Chi è
Maurizio Tura nasce a Milano il 22 aprile 1958 e frequenta il liceo classico presso l’Istituto Salesiano Sant’Ambrogio di Milano.
Si laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi dal titolo: “Gaetano Salvemini e la questione adriatica”.
Insegna lingua e letteratura italiana presso l’Istituto Montini dal 1989.
La scuola presso cui lavora
L’istituto G. B. Montini si propone per un progetto educativo esplicitamente ispirato ai principi cattolici, che assicura il rispetto dei fondamentali valori umani, individuali e sociali.
Finalità fondamentale è l’educazione integrale della persona, il processo guidato di sviluppo armonico delle sue molteplici potenzialità, attività in cui la scuola si affianca alla famiglia, prima titolare del diritto all’educazione, alla comunità ecclesiale, ad altre agenzie educative, ed interagisce con esse.
La scuola si articola in due rami: liceo classico (legalmente riconosciuto nel 1980, scuola paritaria dal 2002) e liceo linguistico (legalmente riconosciuto nel 1989, scuola paritaria dal 2002).
Il Liceo Classico intende fornire agli studenti una rigorosa preparazione umanistica dall’ampio spettro e solidamente fondata, improntata alla conoscenza delle origini classiche e cristiane della tradizione occidentale. L’approccio analitico e problematico alle discipline letterarie, linguistiche e scientifiche porterà gli allievi ad acquisire autentica conoscenza e specifiche competenze, elementi essenziali per un’integrale formazione umana dei soggetti d’educazione.
Il Liceo Linguistico intende fornire agli studenti una rigorosa competenza linguistica, solidamente impiantata su precise conoscenze lessicali e letterarie, integrata con la conoscenza delle origini classiche e cristiane della nostra cultura. Le singole discipline umanistiche, linguistiche e scientifiche saranno affrontate con rigore ed ampiezza di spettro, al fine di favorire l’integrale formazione umana dei soggetti d’educazione.