tre scimmiette

In principio fu Adamo – “La donna che mi hai messo accanto mi ha dato dell’albero” (Gn 3,12) – ovvero come ti rigiro la frittata in poche semplici mosse. Sin dai suoi albori l’umanità cerca la colpa dei propri mali al di fuori della capacità individuale di rispondere: la responsabilità è sempre di qualcun altro. In questo caso della donna, ma in prima istanza di Dio che l’ha messa accanto all’uomo.
Colpa sua, colpa tua… di certo non mia.
Con un precedente di questo genere, non stupisce che parte del popolo, nel corso della propria storia, abbia a più riprese scambiato la divinità e i suoi inviati con l’Ufficio Reclami di turno.
I soldati del faraone ci inseguono sulla strada verso il Mar Rosso: è colpa di quello scriteriato di Mosè, come gli è saltato in mente di condurci fuori dall’Egitto?
Non abbiamo cibo lungo il cammino, come si stava meglio quand’eravamo schiavi ma sazi: è colpa di Dio, come gli è saltato in mente di condurci fuori dall’Egitto?
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, dall’Antico al Nuovo Testamento non cambia quasi nulla.
“Questo discorso è duro!” (Gv 6,60)
Una lamentela con il contrassegno dell’alta priorità, che chiede che il problema venga risolto bene e subito.
Skleròs lògos”, dice il greco. La traduzione non tradisce l’originale, la durezza del linguaggio di Gesù è fedele al testo e ci viene presentata in tutta la sua schiettezza che non indora la pillola, non gioca a nascondino e non si presta a fraintendimenti.
Ti dichiari pane vivo disceso dal cielo: è colpa tua, Rabbi, come ti salta in mente di mostrarci un orizzonte che va al di là del nostro stomaco da riempire?
Ci chiedi di mangiare la carne del figlio dell’uomo e bere il suo sangue: è colpa tua, Rabbi, come ti salta in mente di mettere Dio tra le mani delle sue creature?
Pane e vino, corpo e sangue, roba concreta, tangibile, che si lascia toccare. Il divino chiede di essere amato non tanto con le ginocchia a terra e infinite genuflessioni, ma con l’accoglienza che si fa vicinanza assoluta. Un concetto da capogiro, questo dono totale di sé, il pane moltiplicato sul Tabor in confronto è un gioco da ragazzi.
La durezza delle parole di Gesù risiede nella tenerezza più assoluta di un Maestro che si auto-consegna agli uomini per la loro salvezza e chiede d’essere trattato non con i guanti bianchi, ma preso, spezzato, assimilato fino a diventare un tutt’uno con chi gli si accosta. Sono discorsi duri, si lamentano i discepoli, recalcitrando come bambini, e non possono immaginare che la vera durezza sarà tutta riservata a lui, al nazareno, arrestato, tradito, appeso ad una croce.
“Chi mai può ascoltarlo?” (Gv 6,60)
Ovvero: come ti do forfait prima di cominciare.
Una rinuncia in partenza, una partita persa a tavolino prima ancora che il gioco abbia inizio.
A coloro che pongono la domanda, il come mettere in pratica le parole di Gesù non passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Si fermano ben prima, al momento dell’ascolto. Si tappano le orecchie, facendosi sordi, quelli che non vorranno udire, i veri malati nello spirito.
Se osserviamo questa scena con il senno di poi, per noi è abbastanza semplice scuotere la testa in disapprovazione di quell’uditorio recalcitrante. L’Eucarestia è il momento portante del nostro essere cristiani e la Pasqua il punto di partenza del cammino di fede. Sono tappe per cui rischiamo addirittura di farci l’abitudine, se smettiamo di accoglierle con la dovuta meraviglia di un amore che domanda d’essere sorpreso per rinnovarsi ogni giorno.
Se osserviamo questa scena con il senno di poi, capiamo che lo scandalo – cioè la pietra d’inciampo che mette in difficoltà il nostro percorso – può tramutarsi in un autentico dono, se lasciamo che ci metta in discussione e che spezzi le catene della consuetudine.
La fede cristiana non è amare Dio spegnendo il cervello, ma aderire ad una persona e ai suoi insegnamenti. E’ qualcosa che si costruisce, senza accettarla passivamente ma lasciando che ci interroghi, anche con parole dure che fatichiamo ad ascoltare.
Quali sono, allora, le parole dure che ci lasciano perplessi nell’ascolto, e ancora più dubbiosi nella messa in pratica? Quali sono quei discorsi che ci mettono a disagio, ci fanno spalancare gli occhi e chiedere con un filo di voce “chi mai potrà essere salvato?” (Mt 19,25)
Cerchiamole, queste parole che ci scuotono l’animo. Non abbiamo paura di esse. E quando le abbiamo trovate, non fuggiamo tappandoci le orecchie, cercando rifugio in una fede-fai-da-te in cui si accetta solo quello che ci sembra facile. Lasciamoci interpellare senza timori, anche correndo il rischio di dire “Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò. Ho parlato due volte, ma non continuerò.” (Gb 40,4-5)
Perché, alla fine dei giochi, quel che davvero conterà sarà fare nostra la risposta di Pietro, anche pronunciata con tutta la nostra imperfezione e piccolezza che s’affida con limpida fiducia: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.”

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Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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