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I Dodici sono diventati Undici. Per un ebreo, un fatto simile, non è mai – soltanto – matematica.
Troppa è la simbologia legata al Dodici, per rinunciare a tale numero. Dodici sono le tribù di Israele, popolo eletto di Dio, legati ai nomi dei dodici figli di Israele – Giacobbe. dodici saranno le porte della nuova Gerusalemme, secondo il libro di Ezechiele (Ez 48,31-35).
Ecco quindi che si cerca “il sostituto”, tra coloro che hanno seguito Gesù, sin dagli inizi della predicazione, così che questi possa effettivamente essere un “testimone”. I candidati sono due: Giuseppe e Mattia. Probabilmente per non essere parziali e con la scusante che, prima di farlo hanno pregato, scelgono un metodo che, oggi, probabilmente, giudicheremmo superstizioso: estraggono a sorte il nome del secondo, che, da quel momento in poi, sarà il dodicesimo apostolo.
Si parla poco di Mattia, eppure, egli partecipò attivamente all’edificazione della Chiesa. Ed è bello guardare a lui. Che da “sostituto”, si è fatto protagonista, nella storia della salvezza. A volte, per fare lo stesso, è sufficiente abbandonare un po’ d’amor proprio e imparare l’arte di stare nel posto in cui siamo chiamati a vivere e provare a migliorare noi stessi, invece di aspettare che gli altri cambino e lamentarci, se ciò non avviene.

Il Vangelo ci immerge nuovamente nella preghiera sacerdotale del diciassettesimo giovanneo: pur essendo impossibile a livello temporale, si ritrova ad essere un commento all’Ascensione, liturgicamente celebrata in settimana. Dopo essere apparso, risorto, ai suoi, è venuta l’ora dei consegnare il regno di Dio in eredità alla Chiesa nascente (che non potrebbe nascere, se il Maestro non le concedesse lo spazio di libertà necessario). Il bilancio è molto più ottimistico di quanto saremmo portati a pensare. Di fronte alla prospettiva di “battezzare ogni creatura nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, pare accontentarsi  che nessuno sia andato perduto, «tranne il figlio della perdizione» (Gv 17,12). In realtà, proprio l’eccezione è il sigillo della libertà. Di fronte a Dio sussiste sempre ed in ogni caso, fino all’ultimo, la libertà di dire di no: è la libertà dei figli. Un servo non è libero e anche se fa il bene, lo fa unicamente per timore della punizione che riceverebbe. Un figlio sa che il padre lo ama: se si impegna nella via che il Padre gli indica è piuttosto perché, amando il Padre, vuole che sia “orgoglioso di lui”. Vorrebbe che il suo impegno parli della bontà del Padre a tutto il mondo. A volte, però, anche quando facciamo il bene, il rischio è di rimanere servi, invece che figli, temendo più eventuali punizioni, piuttosto che amare il bene perché farlo illumina i nostri giorni, anche quando segnati dalla fatica della quotidianità.
Del resto, quello che prospetta Gesù è «la pienezza della Sua gioia» (Gv 17,13). Due sono gli aspetti di questa promessa che è bello sottolineare. Il primo è la pienezza: Gesù non ci augura soltanto di scoprire, assaporare guastare la gioia che ci viene direttamente da Lui. Vuole che la gustiamo tutta, vuole che i nostri desideri più alti, che paiono irrealizzabili perché eccessivi possano prendere forma e li affida nelle mani del Padre. Il secondo è la condivisione: Gesù non si è soltanto fatto uomo; condividendo la sua vita con noi, ci vorrebbe partecipi di quanto gli appartiene. Non ci semplicemente qualcosa, fa qualcosa di più profondo: lo condivide con noi. C’è la stessa differenza che corre tra portare un pranzo ed invitare un amico a casa, per condividerlo con lui. Nella seconda opzione, sussiste tutto il trasporto affettivo di chi vuole guardarti negli occhi, con una scusa qualsiasi, solo perché il suo desiderio profondo è che i vostri cuori condividano del tempo assieme. 
«Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (Gv 17,15): alle volte, chiedere di concludere anzitempo l’esistenza è solo codardia. La vita non è sempre semplice. Ci sono sofferenze, fatiche, stanchezze, sfide da affrontare. A volte, tutto ciò è esaltante, a volte stancante, altre ancora ciò ci causa noia. A volte, la noia è l’arma più affilata del Maligno, quella con cui ci pungola alla peggiori azioni, dallo spreco del bene prezioso del tempo, fino a compiere perfino delitti efferati, pur di rompere la monotonia.
Di fronte a certi fatti di cronaca, rimaniamo senza parole (“era sempre gentile” rispondo i vicini, increduli). È questa la banalità del Male. Siamo soggetti al Male, come qualunque altro uomo e, forse, se ancora non abbiamo compiuto azioni particolarmente deprecabili, non è la nostra volontà ad essere forte, ma l’occasione ad essere stata più debole. È per questo che, senza Cristo, non possiamo sentirci al sicuro, pensando che “noi siamo buoni”.
«Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10), raccomanda Lui: solo l’Amore sconfigge il Male!

(rif. letture festive ambrosiane della VII Domenica di Pasqua, dopo l’Ascensione)


Fonte immagine: Pixabay

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