A breve, festeggeremo due importanti ricorrenze liturgiche: l’Ascensione e la Pentecoste. Parallelamente, tante diocesi e tante comunità si preparano a celebrazione le ordinazioni presbiterali.
La liturgia ci offre occasione di riflettere a questo riguardo. Perché, ancora oggi, ci sono sacerdoti? Non è anacronistico?
San Paolo, nella lettera agli Ebrei, nomina un personaggio particolare, Melchisedek. Lo troviamo, per la prima volta, nel libro della Genesi (14,18 e ss.), per poi ricomparire nel salmo 110, prima di ritrovarlo nell’Antico Testamento: nel primo riferimento, si avvicina ad Abram, di ritorno dalla guerra, offre pane e vino e lo benedice; nel salmo, si mostra come figura davidica e, di riflesso, come figura messianica. Senz’altro, il primo motivo di avvicinamento al sacerdozio è nella presenza di “pane e vino”: pur essendo presenti in alcune celebrazioni ebraiche (c’è sempre stata una lunga tradizione di benedizioni per il pane ed il vino, che precedono l’istituzione dell’Eucaristia da parte di Cristo), è innegabile che diventino un segno distintivo, nel “giorno del Signore”, in cui prendevano senz’altro il posto centrale, durante la celebrazione eucaristica comunitaria.
Tu sei sacerdote per sempre
secondo l’ordine di Melchìsedek.
Il richiamo, esplicito, a questa figura abbastanza oscura, diventa motivo di chiarimento riguardo non solo alla specificità, ma alla “convenienza” del sacerdozio di Cristo. Il sacerdote, discendente della tribù di Levi, doveva attenersi a precise prescrizioni, tra cui quella di offrire sacrifici prima per i propri peccati e, solo in seguito, per tutto il popolo. La lettera agli Ebrei evidenzia come chiunque sarebbe in difficoltà a evitare questo “doppio passo”: chi, infatti, potrebbe considerarsi senza peccato? In un certo senso, però, questo inficia il ruolo di “ponte” con l’Eterno, che diventa meno immediato e che avverte tutto il peso dell’inadeguatezza di comparire di fronte a Dio.
Per sempre: senza soluzione di continuità. Così è il nuovo sacerdozio, inaugurato in Cristo. Perché nuovo? Perché cambia tutto, in meglio, rispetto alla tradizione precedente:
7,25 [Cristo]può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
7,26Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli.
L’unico, vero sacerdote è Cristo, in quanto unico senza peccato, che ha assunto su di sé il peccato, perché, nell’unico sacrificio, valido per sempre, noi fossimo liberati «affinché restassimo liberi» (Gal 5, 12). Nessun sacerdote è perfetto, né potrebbe esserlo. Di più. Non c’è alcun sacerdote migliore dei laici. Perché essere sacerdote non è un merito, bensì una grazia, concessa da Dio per l’adempimento di quella vicinanza di Dio, che ci è necessaria per proseguire il cammino che Lui ha pensato, affinché lo raggiungessimo. Come sottolinea s. Atanasio, nel progetto di Dio, Lui si è fatto uomo affinché noi potessimo diventare Dio, cioè partecipare della comunione intratrinitaria di gioia e di amore in pienezza. Certo, è un’espressione forte, ma è l’unica che giustifica questa possibilità unica, possibile solo come dono e non come conquista.
Quanti uomini hanno sognato di diventare Dio? Quanti, pur senza definirlo in questi termini, hanno pensato che fare a meno di Dio fosse condizione imprescindibile alla realizzazione della nostra libertà? Hanno tutti miseramente fallito perché, nell’illusione di sconfiggere la morte, sono morti.
Eppure il desiderio e la sete di Dio non sono negativi. Altrimenti, perché Dio si sarebbe incarnato? È questione di ribaltare i nostri tentativi. Noi siamo fatti per essere come Dio, perché ha liberamente scelto di crearci per amarci e perché stessimo con lui, per sempre. Non perché lo meritiamo. Non perché abbiamo raggiunto il massimo grado di perfezione morale. Non è una selezione élitaria, sulla falsariga dei talent show che animano le nostre reti televisive.
La grande rivoluzione è proprio questa: siamo chiamati perché siamo scelti. Una volta scelti, siamo chiamati a rimanere. Nel momento in cui rinunciare a prendere il posto di Dio, è Dio che ci chiama a partecipare della sua divinità ed eternità, in un amore che non conosce limiti né confini: l’unico capace di appagare finalmente quel nostro desiderio ardente e mai soddisfatto da tutto ciò con cui cerchiamo di esaudirlo.
In un certo senso, possiamo dire che il sacerdozio ministeriale esprime, in massimo grado, ciò che significa il sacerdozio ordinario, che ogni fedele riceve nel battesimo: unico sacerdote è Cristo e, in lui, si compie il sacerdozio di ciascuno, compreso quello ministeriale. Nessuno, per merito, potrà mai agire “in persona Christi”, nell’amministrazione dei sacramenti, che rendono visibilmente presente tra noi come in Galilea, il Maestro di Nazaret; chiunque, scelto da Cristo, potrà farlo, in nome di quella grazia di stato che lo accompagnerà e, pur non risparmiandogli le fatiche pastorali, apostoliche e personali, risuonerà come quell’evangelica rassicurazione: «Non vi lascerò orfani; tornerò da voi» (Gv 14, 18).
Letture festive ambrosiane, nella VI domenica di Pasqua, anno C , con particolare rif. a Ebrei, 7, 12 – 26
Fonte immagine: Wikimedia (“Abraham y Melquisedec”, Juan Antonio Escalante, 1668, Museo del Prado, Madrid)