6a00d8341c6bd853ef011572325c5f970b-320wiC’è un detto che suggerisce: «Prova a metterti nei panni degli altri. Se ci stai stretto, forse anche loro si sentono così!».  Poeti e cantanti, in modo più o meno scanzonato, hanno provato a domandarselo, con risultati più o meno interessanti, da Cecco Angiolieri agli autori più recenti: «Ma io… se fossi Dio, cosa farei?». Ma abbiamo pensato a cosa significhi davvero?

Questa Settimana Santa, o Autentica, credo possa rappresentare un motivo e un’occasione in più per poter riflettere con maggiore convinzione e credibilità a cosa significhi e cos’abbia significato essere Dio nel modo in cui ce lo ha mostrato Gesù. Le ultime ore della vita di Gesù sono infatti, in qualche modo, la sublimazione  e il concentrato  dell’intera sua esistenza, il  cammeo più prezioso di un gioiello ben riuscito. Nelle tappe fondamentali della sua vita di figlio di Dio, fatto uomo, nato, morto e risorto (quello che gli esperti, per brevità, definiscono con una sola parola kerigma), le ultime ore sigillano i rapporti intrapresi, lo stile con cui la predicazione e il suo itinerario per le strade di Galilea si sono svolti, le (poche) parole pronunciate, il desiderio di continuità, la nostalgia di dover lasciare una vita tribolata, semplice, eppure splendida.

C’è un passo, in particolare, subito dopo l’Ultima Cena, che ci racconta che Cristo cadde in ginocchio a pregare (Lc 22): scelta inusuale per pregare per un ebreo, che usualmente pregava in piedi, come il fariseo della parabola (Lc 18, 9  – 14). Questo dettaglio insolito pare sottolineare un punto fondamentale nella parabola discente consapevolmente intrapresa dal Cristo, a partire dalla sua nascita nella carne: è un cammino verso il basso, per scendere dai ‘cieli dei cieli’ fino a chinarsi persino su chi ha la faccia prostrata nel fango; dalla perdita di ogni privilegio e prerogativa divina, fino alla perdita di sé, passando per la perdita di ogni dignità, arriva a raggiungere gli abissi più profondi del cuore umano, per potergli parlare ‘a tu per tu’, sottovoce, senza filtri, senza nulla da interporre alla propria fragilità.

 

Eppure, già dal principio era prefigurato questo annientamento (kenosis), che è più simile ad una discesa irrimediabile, ma voluta e cercata, verso l’epicentro del mistero dell’Incarnazione di Cristo, che è il fulcro attorno al quale tutto ebbe inizio. Dal legno della stalla al legno della Croce; dalla polvere delle strade di Galilea a quella del Calvario; dall’acqua del fiume Giordano all’acqua della lavanda dei piedi; dall’altura del monte delle beatitudini al Monte Calvario, senza dimenticarsi del monte Tabor. Tutto sembra ritornare, ma non per richiudere il cerchio: piuttosto per aprirlo di nuovo, verso un oltre che è poco comprensibile, a partire da chi gli sta vicino (gli apostoli), che si dimostrano smarriti e confusi, prima ancora che impauriti.

Da Dio ad Annientato, da Infinito a finito, da Tutto a Nulla, da Creatore Onnipotente a burattino nelle mani di uomini che s’illudono d’essere potenti, da Giusto a innocente condannato ingiustamente, da garante della moralità umana a reietto secondo le leggi. Perché più della morte del Cristo, è importante il modo. La Crocifissione era morte infame, riservata gelosamente solo ai lestofanti della peggior razza, ai reietti della società, a quelli che non avrebbero mai potuto permettersi un buon avvocato e che, quindi, una volta accusati, avrebbero subito la condanna più grave, senza speranza di perdono…e proprio questa fu la morte sperimentata dal Cristo. Quasi a sancire non solo la riconciliazione con la sofferenza, ma soprattutto con la solitudine. In molti si soffermano sul fatto che fosse povero, cioè non vivesse in una reggia né vestisse porpora e bisso. A me, però colpisce ancora di più un altro dettaglio: accetta la solitudine e l’emarginazione sociale, oltrepassa le barriere dell’indifferenza e dell’egoismo e si fa prossimo di lebbrosi, prostitute, pubblicani; gente diversissima, ma accomunata dal pregiudizio della società del tempo. E, anche in questo, la conclusione delle sue vicende terrene è in perfetta sintonia con lo stile che ha caratterizzato la sua vita. La Passione di Cristo non è un evento isolato, pur nella sua grandezza: è l’apice della sua esistenza, condotta integralmente in perdita di sé.

Tornando sempre al racconto di Luca, della Passione di Cristo colpisce un’assenza: l’Ultima Cena si pone come testamento spirituale del Cristo che sa di andare incontro non solo ad una morte dolorosa, ma oltremodo ignominiosa…eppure non si premura che non s dimentichino i suoi insegnamenti. Gli preme dire: «Fate questo in memoria di me».  Quasi a sottolineare, che, più ancora che fare memoria delle sue parole, al discepolo è richiesto di farsi come Cristo, rendendosi simile a Lui. Ecco perché mi pare decisamente improprio considerare Cristo un profeta. Un profeta è un megafono, che si fa strumento per divulgare e far conoscere le parole di Dio. Cristo è invece Verbo di Dio. Lui è le parole di Dio: proprio in funzione di questo, ogni sua parola è creatrice e ogni suo atto comunica il pensiero di Dio.

Quello che ha detto nei suoi pochi (circa tre) anni di predicazione, pur giusto e saggio, non è certamente esaustivo. L’unicità è che tutto ciò che Cristo ha detto e fatto e pensato, lo fece e disse e pensò non semplicemente come uomo di Dio, ma come Dio stesso, quel Dio che aveva accompagnato il popolo d’Israele nel deserto, in Gesù ci rivela di prendersi cura di ogni singolo uomo, di dedicarsi e di pensare a noi fino a diventare come noi, per affrontare, con noi, le nostre paure più grandi.

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