Brancaccio è un quartiere di Palermo: slabbrato, dissestato, maleodorante. E’ una “terra di nessuno”, cioè in balia di tutti: per coltivare il granoe per coltivare la zizzania. Anche il carcere è una “terra di nessuno”, alla mercè di tanti: di chi vorrà coltivarlo, zappandolo, e di chi, magari ignaro delle sue logiche, vorrà buttarci diserbante e arderlo. E’ il destino delle “terre di nessuno”: anche delle terre di mezzo e di quelle sommerse, di quelle scheggiate e di quelle scollate. Delle terre che non trattengono più sembianza di terra: più sterpaglie che coltivazioni, più veleni che fertilizzanti, più smemoratezza che memoria. Coltivare l’umano ferito, è roba da giganti. Imitazione di Dio.
Alessandro d’Avenia racconta Brancaccio, quella “terra di nessuno” che divenne la terra promessa di padre Pino Puglisi: il suo piccolo Paradiso Terrestre da strappare a tutti i costi alle zanne del Serpente. Lo racconta nel suo ultimo romanzo Ciò che inferno non è. Quel romanzo l’ha condotto giovedì pomeriggio dietro le sbarre di una galera difficile, quella di Padova: una “terra di nessuno” dentro la quale abitano le amicizie più segrete e recondite di chi amò rendere Brancaccio una “terra di nessuno”. Cioè riservata a loro, all’onore della mafia: il volto della disperazione divenuta carne. Lui e loro nella stessa arena: ci sono giorni nei quali la periferia porge panorami mozzafiato. Scene intrise di vita, di speranza e d’amore. Scorci nei quali gli sguardi che raccontano la vita s’attorcigliano seriamente con gli sguardi che hanno organizzato la morte. Che hanno tentato di ordinare il mondo mettendosi davanti al Creatore.
Un romanzo che sboccia da un sorriso tormentoso e tormentato: “Come si può morire col sorriso sul volto?”. La morte è dramma, angoscia, sfigurazione. La stessa morte, per i santi, è compleanno, nascita, luce. Cioè sorriso: «Quel sorriso è il castigo peggiore che possa capitare ad un assassino e il Cacciatore non potrà più dormire la notte» – scrive d’Avenia nel suo romanzo. Loro lo scavano mentre parla, ne svestono la nudità di un giovane narratore, a tratti lo puntano. Loro, uomini d’inferno, sanno cos’è quel sorriso: l’hanno toccato, percepito, han dovuto fare i conti con lui. Quel sorriso è devastante: è l’amore che vince l’odio, la vendetta che è disarmata dal perdono. E’ l’uomo che, mentre l’ammazzi, ti guarda e ti dice cose fulminanti e paradossali: “Tu vali molto più di quello che t’hanno fatto credere. E io sorrido sulla tua vita: la rendo luminosa”. Lui l’ha scritto e loro lo sanno: «In paradiso o all’inferno uno c’è o non c’è. Non ci va». Giusto così, doveroso ricordarlo: l’inferno non è una costrizione, rimane una possibilità. La più nefasta delle possibilità: anche Dio, in un certo senso, creando l’uomo ha deciso di dipendere da lui. Dal fragile gioco della sua libertà.
Alessandro ama i colori, li sveste mentre dipinge quella “terra di nessuno” che diventa la “terra di Dio”: terra da coltivare, esistenze da curare nel senso più botanico del termine, uomini che si facciano agricoltori per conto di Dio. Perchè la terra è buona, è rimasta buona: ciò che serve sono giardinieri e agricoltori, zappe e rastrelli, sementi e annaffiatoi. Tutto può cambiare, tanto sta già cambiando. Perchè l’inferno non nasce inferno: era un Paradiso al quale è stato sottratto l’amore. «Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è» – ricorda quel prete mingherlino ai suoi ragazzi di Brancaccio. Ai seguaci di Cristo.
Nessun romanzo termina con l’ultima parola scritta dal narratore: la sua conclusione avverrà quando, giunto nelle mani del lettore, diverrà un’eterna domanda: “Come ti senti dopo avermi incontrato?” Le strade, quando si toccano, diventano incroci; tutt’al più deviazioni o restringimenti. Nelle “terre di nessuno”, però, nessuno sarà mai terra senza un qualcuno che lo coltivi.
(da Il Mattino di Padova, 22 febbraio 2015)