Celebrare la Solennità di Cristo Re, per un ambrosiano, implica, indirettamente, un’altra consapevolezza: l’Avvento è ormai alle porte, con annesso cambio dell’anno liturgico (A). Il più delle volte, ciò si accompagna ad una sensazione di incredulità, mista a stupore. Di già?
Sì, perché, nonostante la liturgia abbia i propri tempi fissi e prestabiliti, essi si incrociano con il nostro tempo civile e in quel guazzabuglio del nostro animo, finiscono per mescolarsi un po’, correndo il rischio di perdere di vista il filo rosso che conduce il paziente alternarsi liturgico.
La prima lettura, dal libro del profeta Daniele, vuole offrire, al popolo d’Israele, una chiave di lettura sul senso della storia vissuta, nel secondo secolo avanti Cristo. In questo capitolo, troviamo innanzitutto quattro bestie, che sorgono dall’oceano. L’oceano simboleggia il luogo del caos e del male: le bestie, quindi, rappresentano il dominio e il potere di quattro regni che si sono succeduti nel Medio Oriente e di cui è stato testimone il popolo: il leone che rappresenta Babilonia, l’orso che rappresenta il popolo della Media, il leopardo con quattro teste che è simbolo dei Persiani che scrutano in ogni direzione in cerca della preda, la quarta bestia, un mostro terribile, che richiama il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori. Israele sta vivendo un tempo angoscioso, in cui si ribella e tenta di conquistarsi la propria libertà.
La Prima lettura tradisce il desiderio di potenza di un popolo oppresso e l’attesa di un Messa che ripristini un Regno in cui l’israelita non sia più colui che subisce, bensì colui governa con forza, imponendo il proprio volere. «Figlio dell’Uomo», del resto, è l’epiteto che Gesù dà abitualmente di sé, nel Vangelo, richiamandosi certamente (anche) a questo passo del profeta Daniele. Tuttavia, non sarà sotto il segno della potenza che si svolgerà il Regno prospettato da Cristo, come il Vangelo ha modo di specificare.
L’intero capitolo 25, del Vangelo di Matteo, contiene una sorta di testamento, che Gesù pronuncia poco prima del compimento della sua Passione e con il quale vorrebbe orientare i suoi in vista di un comportamento operoso responsabile,
Si riconosce la presenza di una prima parabola dedicata alle donne (quella sulle vergini sagge e stolte: Mt 25, 1 – 13), una seconda agli uomini (Mt 25, 14-30) ed una rivolta a tutti, uomini e donne, indipendentemente dalla loro religione o rango (quella contenuta nel brano liturgico). In verità, si tratta di qualcosa più di una parabola, perché suggerisce le linee del giudizio.
A questo proposito, è interessante notare come le prime due parabole siano state congegnate sulla base di esperienze abituali per le donne (la prima) e per gli uomini (la seconda), cosicché l’uditorio del tempo potesse davvero immedesimarsi nelle Sue parole, richiamando le prime a coltivare la saggezza e la previdenza dal vivere quotidiano in cui lo sviluppano ed i secondi alla generosità nel condividere col mondo le proprie potenzialità.
La terza parabola rivela anch’essa, a maggior ragione, la cura di rendere familiare a chi ascolta un ambito (quello giudiziario), mai piacevole e – per molti – pressoché sconosciuto, per di più, spesso visto come macchinoso ed ostile alla gente semplice (ne abbiamo, del resto, una significativa iperbole, nel romanzo ottocentesco Il processo, di F. Kafka). Per noi, la parabola, rischia di perdere almeno parte del suo significato; ma, per un pubblico di pastori nel territorio di Giudea, l’esempio suona assolutamente vicino, anzi, addirittura: quotidiano. Sul fare della sera, quando bisogna prepararsi per la notte, è necessario separare i capri dalle pecore, perché sono più delicati nei confronti del freddo e bisogna, quindi, portarli dentro l’ovile, al coperto; le pecore, invece, per via della lana che le protegge, soffrono meno il freddo e necessitano – conseguentemente – meno accorgimenti da parte dei pastori.
È curioso notare come l’esempio positivo, nella parabola, colga proprio le pecore: animali utili per il loro pelo, ma non particolarmente attivi, né rinomati per la loro intelligenza. Non che i capri eccellano, in questo ambito, ma almeno, quanto meno per la combattività, ai nostri occhi sembrano – quanto meno – più affascinanti. Nessuno dei due, in verità, attrae la fantasia dei bambini, ma la pecora, in particolare, non ha mai svettato nella classifica degli animali da loro preferiti. La sua remissività è generalmente considerata motivo di noia, nonostante costituisca anche il motivo per cui anche bambini molto piccoli non temono di avvicinarsi a questi animali, mentre tendono ad essere più timorosi anche solo – ad esempio – nei confronti delle capre.
Nel testo segue, poi, quello che noi ricordiamo come l’elenco delle “opere di misericordia”, in particolare di quelle corporali (dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti).
È opportuno notare come non sia specificato chi siano i destinatari di questi atti benefici, tant’è vero che chi li ha compiuti, non ricorda di averli rivolti alla persona che vi si identifica e risulta come frastornato dal vedersi attribuire il bene che – effettivamente – ha compiuto. La vera carità va oltre i meriti (è amore gratuito e disinteressato), perché è proprio quando uno “razionalmente” non se lo merita, che ha maggiormente necessità di sentirsi amato, così da meritarsi, successivamente,l’amore ricevuto in modo del tutto gratuito. L’unico modello possibile di un simile amore può essere solo Dio stesso, capace di precedere l’uomo, nell’amore, in vista del suo pentimento, rivestendolo “in anticipo” della propria grazia, pur chiedendogli piena e totale collaborazione.
Questa pagina non finisce mai d’interrogarci, perché, nella concretezza del vivere quotidiano, se ci guardiamo allo specchio con onestà, dobbiamo convenire che non è mai facile fare del bene, senza badare ai meriti di chi lo riceve: istintivamente siamo portati a cercare una sorta di equivalenza tra i meriti ed il bene. Il bene si fa a chi ci fa del bene. Sui social, del resto, furoreggiano scritte del tipo “tratta come ti trattano, perché non è mai sbagliato”. Gesù però, che vuole davvero il nostro bene, ci mette all’erta e ci invita ad oltre questa logica, perché è solo in un amore che profuma di gratuità, che riusciamo ad assaporare il gusto della vera ed autentica libertà. Quella che ci può donare solo l’amore, di cui Dio è paradigma e modello cui aspirare.
Rif: letture festive ambrosiane, nella solennità di Cristo Re dell’Universo (Dn 7, 9 10. 13 – 14; 1Cor 15, 20-26. 28; M5 25, 31-46)
Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
Fonte immagine: Pixabay