Chiunque abbia avuto a che fare con adolescenti sa che, complice l’esplosione ormonale cui sono sottoposti, l’aggressività, verbale (ma anche fisica) di cui sono capaci arriva a livelli altissimi ed innescare la miccia è molto più facile di quanto si possa immaginare. Quindi non dovrebbe stupire leggere episodi di violenza che li riguardino in prima persona, dal bullismo alla violenza privata. Resta tuttavia difficile rimanere impassibili di fronte ad un omicidio, per di più se il ragazzo uccide i propri genitori, in modo premeditato. Che non si sia trattato di un omicidio efferato, la conclusione amara di un litigio più acceso del solito in cui l’incapacità di controllarsi ha portato ad un drammatico epilogo, ma di un omicidio premeditato è qualcosa di molto più grave. Significa aver accarezzato quest’atto in ogni dettaglio, pianificandolo.
Per quelli della mia generazione, forse, diventa pressoché inevitabile ritornare con la mente ad Erika e Omar. Nonostante siano passati ormai tanti anni, in me il ricordo è ancora vivido. Tanti dettagli sono differenti rispetto a quell’omicidio. Ad essere simile è l’età. E quando hai anche tu quell’età, è inevitabile che un brivido ti corra lungo la schiena, perché, forse per la prima volta, ti rendi conto che non sei più esente dal mondo degli adulti. Che, tra le tante azioni possibili, alla tua portata c’è anche un omicidio. Perfino quello dei tuoi genitori.
Un’altra cosa che sgomenta è poi pensare quel commento, che si ripete così tanto spesso, in questi casi: “Era un ragazzo tranquillissimo”. A me, personalmente fa pensare a due riflessioni. La prima è: quanto conosciamo i nostri vicini, i nostri amici, i nostri vicini di casa? Viviamo a poca distanza, ma i cuori, probabilmente, sono lontani anni luce tra loro! La seconda è: ma allora chiunque può compiere il male? Probabilmente sì, perché il male raggiunge ciascuno di noi. Parte da un pensiero, a cui puoi da credito oppure no. Ma se inizi a pianificare, già il pensiero sta diventando oltremodo pericoloso. Probabilmente, il pensiero di come poter uccidere lo fanno tutti. Lo stesso Vittorino Andreoli, psicologo, ha modo di confermare ciò, rincarando la dose sull’importanza dell’educazione in famiglia, che dà modo a tutti di sentirsi coinvolti:
«Freud dice che tutti noi abbiamo pensato, almeno una volta nella vita, di uccidere qualcuno. Se non l’abbiamo fatto è perché sono intervenuti dei freni inibitori: il rispetto e la cultura della vita, il timore della legge e della punizione eccetera. Oggi stiamo andando verso una società pulsionale, priva di tabù in cui la famiglia viene vissuta come uno spazio privo di freni inibitori: il dramma, paradossale, è che ci permettiamo di essere più violenti con le persone che più ci amano. Anche perché la famiglia (come del resto la scuola) non suggerisce più un’idea di autorità, di rispetto, di educazione, di coesione. E anche in casa il senso della morte è scaduto, banalizzato, come se fosse una semplice malattia: un’equivalenza diseducativa» (Corriere della Sera, 12 gennaio 2017)
Diciamo quello che nessuno vorrebbe mai dire, ma che l’amore per la verità ci impone di non tacere. I primi a voler uccidere (fortunatamente, il più delle volte, solo a pensarlo!) sono i genitori. Il pianto disperato che fa sentire impotenti, dopo lunghe notti insonni, mette alla prova anche gli animi più saldi. È solo un esempio: quanti altri ne potrei fare?La grazia e la forza (sì, forza, perché «il vero potere non è uccidere, ma poterlo fare e scegliere di non farlo!», come dice Oskar Schindler, in Schindler’s List) veri risiedono nel rigettare pensieri che ci porterebbe a danni irreparabili. Innanzitutto per noi stessi.
Perché se perdonare è difficile, perdonarsi lo è, forse, ancora di più. E quando si renderà conto di ciò che ha fatto, oltre a rischiare di rovinarsi l’esistenza (perché, per chiunque li incontrerà ad anni di distanza, sarà difficile, anche se non impossibile, dimenticare un gesto simile), il rischio enorme è quello di non riuscire a perdonarsi. Sentirsi un dannato. Sentirsi dannati. Perché con sé Riccardo ha trascinato un amico, con l’allettante promessa di ricevere “ciò che non aveva mai avuto”, relegando a lui il compito di uccidere, senza però ricordarsi di avvertirlo che avrebbe ricevuto anche un fardello ingombrante, come solo l’uccidere può comportare. Perché non potrà mai cancellare ciò che ha fatto.
Ancora più allucinante, paradossalmente, è proprio la posizione dell’amico, Manuel, che ha effettivamente compiuto un delitto, uccidendo persone di cui forse non gli importava neppure. Ecco, nella sua agghiacciante giustificazione (arrivare ad uccidere, per compiacere un amico, pur di possedere qualcosa che al momento non si possiede) c’è un atto di accusa che oltrepassa la famiglia e interpella la società intera, costituita però da singoli individui. È mai possibile che possa bastare questo ad armare una mano assassina? Quale cosa, per preziosa che possa essere e per ardente desiderio che possa suscitare, potrebbe mai giustificare un omicidio? Adoriamo così tanto il possedere dall’aver trasmesso ai nostri ragazzi quest’assurdità?
PER APPROFONDIRE
Corriere della Sera – Ragazzi svogliati, cresciuti insieme
Il Giornale – Ferrara, dal delitto ai videogame. Così si sono mossi i due amici
Corriere della Sera – La madre di Manuel: «Deve pagare fino in fondo, ma non lo lasciamo»
Il Sussidiario – 16enne uccide i genitori (Redazione)