1. Un’apostasia silenziosa tra cocktail, graffiti e canto gregoriano
solitudineSulla strada che conduceva ad Ars, piccolo villaggio francese di 370 anime, quel piccolo uomo di Dio, al secolo Giovanni Maria Vianney, – del quale in quest’anno sacerdotale indetto dal Santo Padre Benedetto XVI si fa particolare memoria – dettò al pastorello Antoine Givre la linea programmatica del suo futuro ministero di parroco. Si legge nella biografia redatta da Mons. Fourrey: «Egli incontrò un pastorello che è morto due o tre giorni dopo il Curato; gli domandò la strada da seguire, e il ragazzo gliela indicò. – Ebbene! Amico mio, gli disse Vianney, tu mi hai indicato la strada per Ars, e io ti indicherò quella del cielo»(1).
Quella sera del 1818 è una data lontana, ma quell’espressione del Santo Curato, patrono dei sacerdoti, continua ad abitare ancora l’animo e alimentare la passione di tanti altri curati che, in fronte ad esigenze e sfide mutate, addestrano le armi e affinano l’ingegno per continuare ad indicare quel sentiero che conduce Lassù. Sopratutto oggi che sul sagrato della pieve – luogo incantevole e provocatorio, oltreché sacro – quella di fede non è più l’unica liturgia che si celebra. Al curato che all’alba della domenica, con la sua tonaca nera o il suo abito casual, passeggia per dare lode al suo Dio capita sempre più spesso di scovare vecchie “reliquie” del sabato sera giovane: bottiglie di Balalaica e Barracuda, Black and Withe e Old Havana, Golden Drink e Margarita, Tequila, Sunrise e Vodka Martini. O d’alternare tra l’Invitatorio e il Te Deum frasi amorose lasciate in calce alla chiesa o sul muretto: ad imperitura memoria di sogni, attese e trepidazioni che abitano l’animo di chi ha mosso la penna. Sopratutto nelle celebri sere d’estate(2).

Eppure, tra cocktail e graffiti, sembra si stia nascondendo una bella sfida per chi tiene nel cuore la passione del Regno: leggere dentro questa forma di apostasia silenziosa una chance nella quale addentrarsi umili e fiduciosi. Certamente questa è un’apostasia che desta curiosità perché non è l’«abbandono cosciente del deposito della fede» come spiega il Codice di Diritto Canonico al numero 750. Ma indossa la vestaglia di un fenomeno più vicino all’etimo originale del termine: è un allontanarsi da un Volto, cessare un’appartenenza, firmare una frattura(3). Un’apostasia d’inizio millennio che ci chiede d’inventare uno stile nuovo nel fatto cristiano: perché nel cristianesimo conta quasi più lo stile che il contenuto. Nel Vangelo il contenuto è presto detto: l’imminenza del Regno di Dio, l’esigenza della conversione del cuore, la Risurrezione di Cristo. Circa lo stile l’attenzione riservata va addirittura ai sandali, alle scarpe, al bastone, al denaro (Lc 10,1-12). Fatto che sottolinea il ruolo tutt’altro che secondario dello stile oggi che «i campanili sono diventati muti»(4).
La sfida del curato d’Ars era quella di rovinare il ballo e di sottrarre la clientela alle osterie: la perdizione delle anime gli rubava e turbava il sonno. Oggi la sfida raccolta dal curato sul sagrato della pieve è più sottile: quella di riappassionare a Dio esistenze malinconiche, annoiate, appesantitesi su sogni passeggeri e discontinui. Gli atti di bullismo, le gesta suicida e le piccole baby-gang che ormai convivono tra le vie del quartiere ci danno l’esatta misura della sfida: «l’abbiamo fatto per noia, per divertirci un po’ tutti insieme, ma in fondo cosa avremmo fatto mai di così grave?»(5). Probabilmente non siamo più in presenza di quei cristiani anonimi per i quali batteva il cuore di Karl Rahner; ma si sono perfezionati in non cristiani anonimi perché «non si perde la fede, essa cessa piuttosto di plasmare la vita»(6). Ma la Legge del Vangelo non ammette fraintendimenti: «se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13). La chiesa nascente conobbe il martirio del fuoco, della decapitazione e delle frustrate: era l’epoca delle grandi passioni, degli ideali giganti, dei sentimenti veri. Di questi tempi, invece, di Dio nemmeno l’esistenza sembra far più problema: lo si mette semplicemente “tra virgolette”. Siamo nell’epoca dell’intelligenza. E degli outlet.
Certamente ancor oggi – nonostante le continue smentite – la gente chiede al suo pastore la sanctitas vitae, quello stile di vita che procura la fascinazione necessaria ad accendere il cuore della gente. Del curato Vianney scrissero: «Era un contadino, come i suoi uditori, senz’aria da dottore, dalla parola impacciata, semplicissimo, cui si poteva parlare senza timidezza, così penetrato da quanto diceva, talmente devoto nella celebrazione della Messa da trascinare nella preghiera guardandolo»(7). Ma in aiuto a ciò qualche strumento rimane ancora tra le mani per non soccombere sotto i colpi dell’indifferenza. O dell’ironia sarcastica.
La nostra proposta va a rivisitare un aspetto della pastorale che potrebbe aiutare a ricreare quella simpatia, quell’affectus e quelle disposizioni del cuore utili non solo per creare comunità ma anche per allenare le frequenze predisposte a captare la voce dell’Eterno: la pastorale dello sport e del tempo libero. A ben pensarci la vita di parrocchia non è per nulla foresta a questo vocabolario: la letteratura sportiva racconta splendide storie di campioni che affondano le loro radici nei campetti dell’oratorio all’ombra dei campanili. Questo perché sport e fede condividono un certo feeling nel vocabolario e nell’immaginazione. Risvegliare sul sagrato certe frequentazioni potrebbe aiutare qualsiasi curato ad avvicinare con meno timore chi, stanco e disaffezionato del Cielo, va cercando tracce di Dio nel vivere comune.

2. Voci di sport sul sagrato della pieve
E’ un mestiere strano sia quello dell’allenatore che quello dell’educatore. Uno strano e appassionante mestiere di vita: li trovano che sono ancora infanti i loro “atleti”, ma ne fiutano già le potenzialità nascoste dentro. Ci vivono assieme – nel buio di una palestra di periferia o all’ombra di un campanile nulla cambia -, li aiutano a crescere, a maturare, fino a far esplodere il meglio che sanno fare, il meglio di ciò che sono. Ma nell’atto della performance (un’olimpiade o una scelta di vita) sanno di doversi mettere in disparte, starsene a bordo campo e accettare di vivere e dipendere dall’azione di chi fino ad allora hanno allenato. Per entrambi, però, qualunque sia il risultato finale, quell’atleta è stato il miglior investimento di una carriera che si nutre di fatica e passione. Cioè di ascesi.

a. Un’ascesi senza religione

otteyIl termine ascesi (dal greco askesis) vanta un campo semantico che oltrepassa la banale rinuncia, il distacco dal mondo, l’esaltazione esasperata del dolore come arma per affinare l’interiorità. Nel suo etimo originario tale termine evoca l’esercizio e la pratica per affinare qualche abilità. Per il popolo greco anche il soldato – che si esercitava nell’uso delle armi – e il lottatore – che s’allenava e s’apprestava alla battaglia – erano degli asceti. L’esercitazione nel bene e la repressione delle passioni nocive resero prezioso questo termine pure al fatto cristiano. Ma entrambe le sfumature – sia quella pagana che quella cristiana – fanno riecheggiare nell’animo l’idea dell’esercizio, dello sforzo, dell’applicazione per inseguire e conquistare determinati traguardi: diversi a seconda della prospettiva da cui s’inizia il viaggio.
Pure il corpo chiede applicazione e pratica per essere valorizzato e vissuto in modo positivo: non sarà difficile leggere dietro una sana passione per il proprio corpo un rispetto anche per l’anima che lo abita. In questo senso lo sport – e il gesto che ne è l’esplicitazione esteriore – possono essere letti come una forma ascetica, seppur senza religione(8). Anche un neofita dell’esercizio sportivo s’addentra ben presto nella frequentazione di termini che richiamano il sudore e la caparbia ricerca del meglio da conquistare: passione, applicazione, metodo, stile, fantasia, caparbietà, aspirazione, sogno, costanza, emozione, sacrificio. L’animo dell’atleta viaggia vicinissimo a quelle frequenze che fecero di gente dalla biografia comune grandi santi additati dalla chiesa: la sfida, il limite, l’oltre, l’ardire, il confine, il record. Il santo e l’atleta – pur partendo da posizioni diverse e partecipando ad aspirazioni diverse – tengono la convinzione che l’uomo sia proprio così: sempre oltre, sempre in stato di parto, sempre cacciatore lanciato all’inseguimento di una preda.
L’esperienza che invade e conquista l’animo di un giovane che s’addentra nelle cattedrali dello sport ha qualcosa che rinvia al concetto stesso del rapimento, dell’estraneazione, dell’estasi, della perdita e del ritrovamento di sé: termini che non sono per nulla estranei alla teologia cattolica e alla spiritualità che si tramanda di generazione in generazione. Dal momento che l’ascetica sportiva e quella religiosa tendono a ritrovarsi sotto il medesimo traguardo: quello di mettere l’uomo nudo di fronte a se stesso e spingerlo verso il bene massimo di cui è capace nel tentativo di accenderlo. Scrive Roger Bannister:

Possiamo giocare a guardie e ladri con la realtà, senza mai affrontare le verità che ci riguardano. Nello sport ciò è impossibile. Con il suo confuso alternarsi di fallimento e di successo, lo sport ci scuote alle radici, ci spinge verso le più straordinarie scoperte su noi stessi, mette a nudo i nostri limiti e le nostre capacità(9).

Allenare un giovane allo sport e allenarlo alla dimensione della fede, pertanto, è un’educazione che corre per certi versi parallela, almeno nell’attimo in cui l’obiettivo è quello di preparare le disposizioni interiori, le fondamenta sulle quali poi poggiare e realizzare il progetto architettato. La dimensione sportiva spartisce con l’atto di fede quell’ordine del cuore che è necessario tanto per fare di un buon ragazzo un possibile campione quanto per fare di un giovane fedele un possibile santo: la storia racconta di campioni smarritisi per il disordine del cuore e di santi mancati per non aver creduto nella regola spirituale. Educare allo sport è fare ben presto esperienza di quell’essere nel mondo sempre in bilico tra la dispersione nell’inautenticità e la possibilità di riprendere in pugno il proprio destino. Un essere-nel-mondo che attraverso l’esercizio ascetico può aprirsi ad un essere-per-la-vita in modi intensi e radiosi fino ad affrontare un essere-per-la-morte che ne costituisce il marchio d’autenticità. Qualsiasi allenatore-educatore che sia tale sa che il suo messaggio è fatto per chi sa osare, per gente caparbia e appassionata, per uomini di grande statura individuale. L’opposto è la creatura destinata a disseccarsi fino a precipitare nel banale. E’ sempre possibile fallire simile traguardo: in ogni caso, chi vuol tentarlo deve rimettere in gioco ogni volta tutta la posta. O, ben più arditamente, sfidare quella tentazione di inautenticità nella quale i sensi s’appisolano definitivamente. Non per nulla il psicologo Viktor Emile Frankl, una volta uscito vivo dal lager, spese la vita per combattere quella che lui chiamava la malattia esistenziale. Girò il mondo per dire a tutti: «Tenete duro, perché per tutti la vita ha un senso»(10).
Per tutti c’è una Bellezza nascosta che ci salva dalla disperazione.

b. Il gesto atletico come metafora del desiderium naturale videndi Deum
atletaUna bellezza che attira, che crea quella sorta di fascinazione che allarga poi l’immaginazione stessa, smuove l’esistenza, addita un oltre per il quale valga la pena d’impegnarsi. Perché «nessuno aderisce ad un senso ultimo se non per una sorta di fascinazione della sua bellezza percepibile e anticipabile»(11). Da qui il parallelismo tra quella voce interiore che abita il cuore dell’atleta quanto quella che abita il cuore del cristiano. La teologia medievale parlando dell’uomo ha tramandato la splendida affermazione del desiderium naturale videndi Deum: la convinta e convincente scommessa dell’incontro possibile tra Creatore e creatura. E’ lo Spirito che – muovendo il cuore e aprendo gli occhi della mente – permette a Dio di attrarre l’uomo alla comunione con Lui infondendo un dinamismo nuovo; la grazia opera dall’interno e orienta i desideri dell’uomo. La predicazione aggiungerà il “di più” operando dall’esterno. D’altronde già Agostino era del parere che nessuno può insegnare alcunché ad altri perché «in interiore homine habitat veritas»(12): ragione per cui il possibile è solamente quello di far risuonare dall’esterno dei segni che destino la persona alla ricerca della pienezza.
Riconosciuta l’immanenza di questa intenzionalità e il suo innato tendere ad Deum, la necessità che ne consegue è quella di accendere i passi. Quando il cattolico discutere accademico – in particolare nel versante della Teologia Fondamentale – s’aggrappa al termine credibilità(13) per mostrare la proposta di senso del messaggio cristiano, parte dall’evento della Rivelazione: Dio che impreziosisce il cuore dell’uomo e della storia stessa di quello che Karl Rahner definiva una forma di «magnetismo spirituale». Qualcosa che, acceso, inizia a far sintonizzare tra loro i due poli d’attrazione. Ebbene, la Rivelazione inserisce dentro la storia un orizzonte prospettivo del quale l’uomo non può ignorarne l’esistenza se vuole arrivare alla pienezza del suo essere: è un’offerta fatta alla storia di un qualcosa che vada oltre l’immanenza per accompagnare verso l’autenticità. Mutatis mutandis è un po’ quello che s’innesta nel cuore dell’atleta quando si staglia all’orizzonte della sua immaginazione un traguardo da vincere, un record da abbassare, una strenua lotta da ingaggiare per arrivare a quel traguardo, a migliorare quella prestazione, a superare un limite ormai datato. Insomma: c’è qualcosa che riscalda il cuore dell’atleta e lo rende capace di significazione.
A chi frequenta e s’appassiona di esistenze giovani, non sarà estranea la netta differenza di vocabolario che intercorre tra chi pratica sport e chi fa del bullismo il passatempo preferito. Il vocabolario del bullo ha un campo semantico ristretto e monocolore: compagnia, vasca, muretto, forza, violenza, appartenenza, minaccia, ricatto, spionaggio. Parole che raccontano l’oscurità, il grigiore, la stanchezza, la paura di perdere il controllo della situazione. Il vocabolario dell’atleta, dal canto suo, tiene parole giovani e colorate: passione, sacrificio, caparbietà, sudore, gloria, conquista, addestramento, travaglio, inseguimento, emozione, lacrime, sorrisi, abbracci. Parole che raccontano di un dinamismo interiore, di un’attrazione appassionata, di un bersaglio individuato. Capacità di sopportare lunghi allenamenti, ripetuti passaggi, faticosi sacrifici. Cassius Clay, l’ex pugile americano oro olimpico a Roma 1960, annotò nel suo diario: «Ho odiato ogni minuto d’allenamento ma mi dicevo: non rinunciare. Soffri ora e vivi il resto della vita da campione». La sofferenza, il silenzio di Dio, la fatica della storia, le notti oscure della fede, il travaglio interiore dei santi, il combattimento spirituale possono essere la traduzione di fede della melodia agonistica: è il sogno dell’Eterno e dell’incontro con Dio che fa leggere nelle loro trame l’occasione di una purificazione necessaria per allenarsi alla trascendenza. Anche perché Dio, a differenza dello sport, solitamente non prevede addestramenti per i suoi atleti. Ma li manda subito allo sbaraglio per fare esperienza della sua novitas.
Ecco, quindi, la sofferenza, la sopportazione della fatica, il senso dell’ignoto che attira e rende meno certi della vittoria. E’ la bella lezione dello sport che, quando rimane tale, è capace di forgiare il carattere, tenere equilibrata la mente, allenare la vita a non mollare la presa. Non è un caso che tante volte si paragoni l’esistenza ad una corsa da affrontare, la vita ad una maratona. Poche volte viene chiesta la brillantezza di un centometrista, il più delle volte serve la costanza e il fiuto di un maratoneta. Che dosa lo sforzo, programma con intelligenza la gara, dosa le energie; che sa quando scattare, aumentare il passo, recuperare. Attento a non lasciarsi scappare l’attimo che fa di un ritmo magari sonnolento la velocità giusta per la vittoria. La velocità del gabbiano Jonathan Livingston:

non significa mille miglia all’ora, nè un milione di miglia, neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta vuol dire solo esserci, essere là(14).

L’atleta è un bellissimo mistero: sotto la canicola d’agosto o il gelo di gennaio, con la pioggia o il vento, sotto una bufera o trepidante per un temporale lui è sempre presente. Perché sa che la medaglia è questione di tanta costanza e altissima precisione: non s’improvvisa una maratona, la si pianifica. I primi allenamenti corti che s’allungano sempre più, i cambi di ritmo prima lenti poi sempre più faticosi, la corsa media, le ripetute e quei “lunghissimi” che pian piano t’avvicinano alla soglia dei 42 km, alla soglia dell’emozione. E’ l’Eternità: che si conquista pian piano, che si gusta, alla quale ci s’allena, che non s’improvvisa, che t’invita ad ascoltare te stesso per imparare a parlare con te, con gli altri, con Dio. Guardi l’atleta e vedi la passione, lo stupore, la caparbietà nascosta sotto quelle smorfie di fatica, la sofferenza dell’allenamento per vivere poi la gara da campione.
Dentro queste immagini ha trafugato pure Paolo di Tarso, l’atleta di Dio, per parlare della fede: lodando la padronanza dell’atleta, l’impegno totale, il raccoglimento durante la gara, il non risparmiarsi ammaestrava circa l’agonismo spirituale, l’addestramento dell’anima, la corsa verso Cristo. Che è risposta al traguardo dell’Eternità. E, all’amico Timoteo, confessava il suo segreto d’atleta: «Corro perché conquistato» (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: ad accendere i suoi passi c’è sempre un sogno, un tocco di seduzione, un frammento di bellezza(15).
Un qualcosa che seduce e che attira: quel qualcosa che la Teologia chiama trascendenza. Cioè una voce dall’oltre. Per ascoltare la quale l’atleta necessita di un cuore ordinato. E di una mente libera.

c. L’altra faccia della medaglia
L’altra faccia della medaglia(16) è un libro scritto col cuore. E dedicato a quella genìa strana e intrigante, a metà strada tra la semplice affiliazione sportiva e la paternità familiare, che va sotto l’appellativo di allenatore. Ad unire questi uomini è la passione per i loro atleti, passione che non sembra mostrare prezzo o limiti. Questa la fotografia dell’allenatore riportata sul retro della copertina:

Nello sport c’è chi lotta per anni perché una medaglia vada al collo di un altro. C’è chi lotta, ma nel momento decisivo non può combattere, condannato a soffrire ai margini del campo. Sono gli allenatori, uomini fondamentali nella costruzione di un successo, che però normalmente vengono alla ribalta solo quando le cose non vanno bene e se ne assumono le colpe.

mourinhoDa Velasco ad Allievi, da Gigliotti a Petrov fino a Carlo Mazzone per scoprire i segreti alla sbarra di Igor Cassina, le fatiche di Gelindo Bordin e Stefano Baldini, i voli di Sergej Bubka e Giuseppe Gibilisco, le prodezze e il genio di Roberto Baggio. Leggere quelle pagine è intuire l’importanza dell’interiorità che s’annida dietro una medaglia, un goal, un salto verso l’alto: l’avvertenza di saper salvaguardare un ordine dentro l’anima. E’ questa la prospettiva che accompagna il salmista a chiedere a Dio: «sia il mio cuore integro» (Sal 119,80): perché l’uomo d’affetto vive ma d’affetto può anche soccombere (pur vivendo apparentemente). Vive quando il cuore è ordinato, soccombe quando abita nel disordine. Strappò più di qualche applauso e venne usata anche da ambienti solitamente indifferenti all’agonismo, la frase con la quale Alex Schwarz, medaglia d’oro nella 50 km di marcia a Pechino 2008, rispose circa la sua felicità o meno dopo la vittoria: «Non sono felice perché ho vinto, ma ho vinto perché sono felice». Che è molto più d’un semplice gioco di parole: è l’attestazione che il risultato – sopratutto se la competizione chiede uno sforzo mentale ai limiti della sopportazione – sboccia quando il cuore è tenuto in ordine. Mettere in ordine è un verbo familiare alle orecchie giovani. Perché richiama l’invito suadente e insistente della mamma a sistemare la camera, lo zaino o la cucina. Mettere in ordine per dare un senso d’armonia e vivibilità ad un ambiente familiare: la nostra casa. Mettere in ordine l’interiorità: sentimenti, emozioni, desideri sono – assieme ad altre moltitudini divine – cassetti che compongono la struttura del nostro essere. E, di conseguenza, del nostro operare. Tenerli ordinati è il segreto per non impazzire fino all’annichilimento: l’ordine permette di chiamare i cassetti per nome, di riconoscerli in base al contenuto, di aprirli a proposito qualora s’avverta la necessità. Qualsiasi educatore può misurare là – in quella zona in cui ordine e disordine fanno a pugni – la sua capacità di manovra nell’animo del ragazzo giovane: sapendo che nel momento decisivo l’allenatore non potrà combattere: ma dovrà rimanere a soffrire ai bordi del campo.
La biografia sportiva e la cronaca quotidiana raccontano storie tristi di talenti perdutisi all’ombra del disordine, dell’agiatezza conquistata, del gossip ricercato più delle prestazioni. Non tutti ne hanno percezione. Eppure sul sagrato di quella chiesa – dove il Deus è divenuto velocemente absconditus – si sta giocando una battaglia dalle dimensioni imprevedibili, nella quale quei giovani sono vittime e carnefici: la sfida tra un’enfasi spaventosa attribuita all’affettività e l’arida constatazione che per la vita emotiva non si prospettano grandi investimenti(17). E’ il delicato tema delle emozioni che albergano nel cuore dei ragazzi. E che sanciscono la netta separazione tra il vero allenatore – educatore e il guru di passaggio.
Con il termine emozione intendiamo – sulla scia di Daniel Goleman, insegnante di psicologia a Harvard – «ogni agitazione o turbamento della mente, sentimento, passione: ogni stato mentale violento o eccitato»(18). E’ in questo senso che le emozioni parlano e dirigono l’esistenza. Ci sono emozioni delicate quali la gioia, la tenerezza, la speranza, lo scoraggiamento: intercettabili negli sguardi e nelle increspature del volto. Anche se il corpo non dà loro risonanza, l’immagine viene registrata nel cuore. E poi ci sono emozioni di cui il corpo si fa paladino: la tristezza, l’angoscia, la disperazione, la noia, la desolazione, l’aggressività. Le trovi negli sguardi accesi, torturati e afflitti. E questa è per noi una bella possibilità: dal volto poter risalire all’intensità di un’emozione e, registratane la frequenza, dispiegarla per liberare la Contemplazione. Potremmo abbozzare un parallelo: come per gli antichi profeti ebraici ogni secondo era la piccola porta dalla quale poteva entrare il Messia, allo stesso modo, mutatis mutandis, ogni piccola emozione potrebbe trattenere la medesima speranza.
Saper leggere in profondità il cuore del ragazzo è questione di successo e d’insuccesso in qualsiasi corsa: sia quella verso l’Eterno sia quella verso un traguardo terreno. Chi non ne è capace ricorre o incentiva all’uso del doping o di altre scorciatoie per tentare di contraffare quello stato di grazia che è proprio degli dei:

lo scatto è un vero e proprio impulso elettrico che prende di soprassalto certi corridori cari agli dèi e fa loro compiere prodezze sovrumane […] drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio; è rubare a Dio il privilegio della scintilla(19).

Fino a far nascere quel sospetto – già apparso nel Giardino nei primi giorni della creazione (Gen 3) – che graffia il sano eroismo che ogni bambino trattiene nella sua immaginazione da quando ha incontrato quel campione, ammirato quelle gesta, tentato quella performance.

3. Conclusione: avvertenza per l’homo distractus
goalE di desiderio si nutre e s’allena sia il santo che l’atleta.
Agostino d’Ippona nei Trattati sulla prima lettera di Giovanni riserva parole splendide per descrivere la dimensione del desiderio. E lo fa con un esempio tratto dal quotidiano vivere: «Se tu devi riempire un recipiente e sai che sarà molto abbondante quanto ti verrà dato, cerchi di aumentare la capacità del sacco, dell’otre o di qualsiasi altro contenitore adottato. Ampliandolo lo rendi più capace». Stessa situazione quando Dio decide di dilatare il cuore della creatura. O di allargare la sua immaginazione: «Facendoci attendere (Dio), intensifica il nostro desiderio, col desiderio dilata l’animo e, dilatandolo, lo rende più capace». L’esistenza diventa quindi una «ginnastica del desiderio» che sarà tanto più faticosa quanto più necessario si rivelerà il bisogno di purificazione. D’altronde «supponi che Dio voglia riempirti di miele. Se sei pieno di aceto, dove metterai il miele? Bisogna liberare il vaso da quello che conteneva, anzi occorre pulirlo»(20). Tradotto: si necessita dell’allenamento.
Ecco perché per l’homo distractus la pratica sportiva potrebbe diventare ben presto una forma di carità che risvegli la grazia deposta nell’anima. Togliere alla fatica il desiderio è fare esperienza di smarrimento, di lontananza, di dimenticanza dell’essere gente graziosa. Perché questa è la situazione propria della creatura: amata per grazia, creata con grazia, inseguita e bersagliata dalla grazia. Non riconoscere l’inabitazione di tale grazia equivarrebbe ad abitare una grigia prigione.
Le parole del Santo Vescovo di Tagaste le potremmo associare all’esistenza di tutti quei ragazzi che affollano i sagrati delle nostre chiese: lasciandone vergine e intatto l’interno. Biografie apparentemente statiche ma che migrano volentieri. Forse in cerca delle anime, molto più lente dei piedi frettolosi: la banda, il muretto, la squadra, la compagnia, il gruppo musicale, la piazzetta, le vasche del corso, la spiaggia, i concerti, il pub, la discoteca, la notte, l’automobile; gli spazi virtuali, la musica, il fumetto e Internet. Forse non sarà lo sport a salvare il mondo: a quello ci pensa la bellezza di Dostojevskj. Ma rimane la bellezza di scoprire come l’antichissima arte d’allenare un ragazzo mostri e prepari, magari sorprendendo, quel terreno che lo rende pronto poi al richiamo della trascendenza.
Il Creatore è all’opera dal primo mattino. La scintilla alberga nell’argilla. L’invito non è di creare altri uomini, ma di restaurare l’uomo creato secondo la vecchia avvisaglia dell’Isaia profeta: «La tua gente riedificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore(21) di case in rovina per abitarvi» (Is 58,12). Con un’accortezza: «Non è la vita che ritorna sempre uguale, siamo noi che non sappiamo riconoscere la sua varietà e la sua ricchezza e ci passiamo sopra […] sentirne il sapore tra i denti»(22).
Al suono di una campana inizia la celebrazione nella chiesa di parrocchia. Al fischio dell’allenatore inizia la celebrazione del gesto sportivo nel campetto dell’oratorio. La campana e il fischietto a darsi man forte per una comune celebrazione, che dell’Eucaristia sarebbe l’incarnazione più reale: quella di un giovane che, allenando il corpo, ordina il cuore per liberare l’ascolto al richiamo dell’Eternità.
Cosicché anche il sacerdote e il mister si troverebbero a condividere il medesimo sogno, che vale la loro vita: far esplodere il talento.
Che è in loro e che sono loro.


Note

(1). R. Fourrey, Vita autentica del Curato d’Ars, San Paolo. Milano 1996, 97.
(2). Per costruire uno sfondo sociologico si legga l’articolo di G. Scida’, «Come cuccioli senza collare: la ricerca di sfondo» in Il Nuovo Areopago 1 (2008) 3-23. E’ un’analisi delle sfide che i nostri adolescenti si trovano a fronteggiare. In esso si tenta di sottolineare la sostanziale solitudine causata dall’assenza di riferimenti e di guide autorevoli che possano orientarli nel complesso cammino educativo che li attende. Verso il conseguimento della loro condizione di adulti.
(3). M. Parmeggiani in L. Guglielmoni – F. Negri, Non temere, Paoline, Cinisello Balsamo 2004, 3.
(4). CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale del 30 maggio 2004, www.chiesacattolica.it
(5). «Ci annoiavamo, che male c’è?», in Corriere della sera, 10.12.2008.
(6). G. Bernanos, Diario di un parroco di campagna, Mondadori, Milano 200718, 101.
(7). R. Fourrey, op. cit., 108.
(8). L’espressione è di R. Weber, Perché corriamo?, Einaudi, Torino 2007. Scrive nella copertina del suo volume: «Tutti gli uomini corrono. In un mondo spaesato, l’attività più povera, semplice e non tecnologica è diventata una simmetria universale. La corsa è un’ascesi senza religione, un percorso di liberazione dai luoghi e dai non luoghi, dai limiti dello spazio e dei tempi».
(9). R. Bannister, The Four-Minute Mile, 1955 in R. Weber, op. cit., 91.
(10). V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, ARES, Milano 1999.
(11). E. Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline, Milano 2008, 11.
(12). Agostino, De vera religione, XXXIX, 72.
(13). S. Piè-Ninot, La teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 20073, 198-212.
(14). R. Bach, Storia del gabbiano Jonathan Livingston, BUR 1977.
(15). A tal proposito si legga l’editoriale «Lo sport: una parabola dell’esistenza» La Rivista del Clero 7(2008)
(16). E. Chiari, L’altra faccia della medaglia. Grandi maestri di grandi campioni, Limina Editore, Arezzo.
(17). Un interessante contributo sul dire Dio alle generazioni giovani è quello firmato da F. Scalia, «Inviato ad paganos. Parlare di Dio ai giovani, fra pseudoatei e falsi cristiani» in La Rivista del Clero Italiano 1 (2008) 63-80.
(18). Nell’interiorità della persona abitano centinaia di emozioni con le loro relative sfumature e la letteratura di settore fatica a raggrupparle in primarie e secondarie. Tuttavia alcuni studiosi tendono a raggrupparle in queste otto famiglie: collera, tristezza, paura, gioia, amore, sorpresa, disgusto e vergogna. Tutta la suddivisione – che fa da base alla nostra riflessione – è in D. Goleman, Intelligenza emotiva. Che cos’è. Perché può rendere felici, BUR, Agosto 200718, 333-334. Abbiamo adottato il suo studio perché stregati dalle prime righe dell’introduzione: «Ho scritto Emotional Intelligence in un momento in cui la società americana si dibatteva in una crisi profonda, caratterizzata da un netto aumento della frequenza dei crimini violenti, dei suicidi e dell’abuso di droghe – come pure di altri indicatori di malessere emozionale – sopratutto fra i giovani. Il mio consiglio per guarire questi mali sociali era di prestare una maggior attenzione alla competenza sociale ed emozionale nostra e dei nostri figli, e di coltivare con grande impegno queste qualità del cuore» (7).
In Italia la crisi educativa potrebbe mostrare delle affinità.
(19). R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, 111.
(20). Agostino, Trattati sulla prima lettera di Giovanni, PL 35, 2008-2009.
(21). «Riparatore» e «restauratore». Non «costruttore»: quest’ultima rimane proprietà dell’Eterno!
(22). E. Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline, Milano 2008, 95.

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