La sognavo avanzarmi davanti, in quelle nottate (ben) prima degli esami, ventiquattro anni fa: era l’anno 1998, quello dei Mondiali galletti in Francia, della spettacolare accoppiata Giro-Tour di Marco Pantanì. L’anno della mia maturità, per l’appunto: la cui (mia) tesina m’era costata lo studio di tutte le opere del Verga. Quella mattina, però, se n’è rimasta comodamente a letto, con buona pace delle toto-scommesse da studenti. Che m’importa, allora, se è giunta sui banchi di scuola con (soli) ventiquattro anni di ritardo? Stamattina, quando l’ho vista affacciarsi sulle tracce degli esami di maturità, aveva lo stesso incantesimo di quando, a sedici anni, ci siamo incrociati per la prima volta. E, abbracciandomi, mi ha fatto perdere letteralmente la testa: prima di tutto per lei, ma poi anche per il suo papà letterario che, negli ultimi tre anni di liceo classico, m’ha letteralmente rubato il sonno, accendendomelo di passione nel farmi ripercorrere i suoi scritti. Ammetto che Giovanni Verga, col suo verismo, è stato il mio primo teologo. Quando ancora la teologia, per me, era un sapere senza identità. E Karl Rahner un emerito sconosciuto.
Lei, però, è Nedda. Ve la presento. E’ una giovanissima bracciante siciliana che lavora duramente per (sopra)vvivere e vedere morire di stenti prima la vecchia madre (per pagarle la messa in suffragio vorrebbe sdebitarsi con due giornate di lavoro nel campo del curato!), poi anche Janu, il giovane del quale si è innamorata perdutamente nel posto di lavoro. E infine, come se non bastasse la lista di sfiga, dopo aver perduto il suo piccolo lavoretto muore anche la loro bambina che, nata «rachitica e stenta», mai osò buttare alla Ruota. Dipingendola più che raccontandola – è proprio il caso di dirlo! -, con Nedda Verga inizia a raccontare le misere vicende di questa nostra umanità: i vinti, per l’appunto. Lui non è uno che commenta, si limita a dare voce alle cose stesse, ai fatti accaduti: lascia che a conversare con i suoi amatissimi lettori sia la realtà stessa, quella inclemente e cruda. Anche crudele. Prestando, piuttosto, il suo microfono volentieri al mondo degli animali: non il grado più basso di umanità, ma l’aspetto più umile della santità. In contrapposizione con la spietatezza di coloro che ruotano attorno a quest’umile raccoglitrice di olive, sempre pronti ad esercitare la loro critica impietosa. Che sia benedetto il pettirosso, allora: «Un pettirosso, il freddoloso uccelletto del novembre, si mise a fischiettare tra le frasche e i rovi che coronavano il muricciolo e di faccia all’uscio, e alcune volte, saltellando fra le spine e gli sterpi, la guardava con certi occhietti maliziosi come se volesse dirle qualcosa». E, dietro le faccende di Nedda, il Verga nasconde tutto il suo credo: la passione, la gelosia, la religione della famiglia, la fedeltà alla casa, l’attaccamento alla roba, la poesia del lavoro, la solitudine e l’egoismo, la solidarietà e la rivolta, la rassegnazione e la fatalità. Il dolore la crudeltà, la fame, l’ingiustizia. Nedda è tutto questo, Nedda è molto di più: è il tutto dell’esistenza che s’incarna in una creatura così artisticamente vera da dare vita ad un affresco umano. Di quelli che sopravviveranno a loro stessi. A noi medesimi che oggi li leggiamo o li ignoriamo.
Nedda non è la donna degli amori di lusso: di quelli esasperati, travolgenti, che appartengono alla sfera mondana. Per pennellare Nedda, il Verga decide di andarsi ad infilare nei sentimenti più essenziali, silenziosi, frustrati, proprio quelli di Nedda. Il suo amore con Janu è un amore tacito, ricco di pudicizia: è fatto di sguardi, ha tratti di castità. Un amore che da quanto timido è necessita della complicità degli animali per riuscire ad esprimersi: «Lo so, ragliano perchè sono innamorati – disse egli con un sorriso grossolano, e la guardò fisso -. Ella chinò gli occhi come se vedesse delle fiamme, e le sembrò che tutto il vino che aveva bevuto le montasse alla testa, e tutto l’ardore di quel cielo di metallo le penetrasse nelle vene». Quello stesso raglio d’asino che saluterà quest’idillio rusticano, con gli occhi di Nedda che, «asciutti e spalancati», rimarranno tali nell’infinito del lettore. Quasi a chiedersi il perchè di una così grande sofferenza nel momento in cui la sua creatura, frutto di un amore colpevole di ragazza, le morirà tra le braccia «tutta fredda e livida». Non trova risposte Nedda, non trovano risposte quelle che le somigliano nelle pagine verghiane: non resta che comprendere gli ordini e prestarsi ai servizi più umili. Che i grandi non possono permettersi per non perder la faccia.
Non bestemmia Nedda: altri personaggi di Verga bestemmiano. Eccome se imprecano! Nedda, invece, no. La sua fede è una fede intessuta di sincerità, anche ingenua se vogliamo. Una fede ridotta all’accettazione di un catechismo mai messo in discussione, ma mai penserà di legare la sua sfortuna a dei peccati pregressi. Nedda, per com’è fatta, non crede affatto in un Dio del castigo, come la protagonista di Storia di una capinera: il Dio nel quale professa fede è il Dio della libertà, della bellezza, dell’amore. Un Dio che si cala dritto dentro la vita concreta dei protagonisti, per poi diventare segno di contraddizione. Ecco, allora, le due parti di credenti che s’incrociano nella novella: da una parte i ministri del culto e gli osservanti (che scansano Nedda perchè è in odore di peccato per la sua relazione con Janu. Anche il curato che le fa pagare la messa!); dall’altra i puri di cuore che si rimettono completamente alla volontà di Dio, accettando cristianamente la morte e la sofferenza. Come lo zio Giovanni (quello che ha pagato al curato la messa al posto di Nedda), ministro di una carità che il Verga arriva ad esaltare contro la morale «ingiusta a sterile» dei professionisti del sacro. Nedda è anche due bozzetti di Chiesa: quella fatta di precetti, merletti e formalismi esteriori – che il Verga pare canzonare perchè senz’anima né calore – e quella pura degli umili. Di Nedda, per l’appunto. Che, alla faccia della malasorte, arriva a benedire il Signore per avere dato due braccia forti per lavorare. E, nella disgrazia, non dispera, anzi benedice con le sue morte la Madonna: «Benedetta voi, Vergine Santa! Che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me».
Con Nedda Verga abbassa lo sguardo sui vinti: se sono vinti significa, per lo meno, che hanno combattuto e hanno perso. Questo interessa al Verga: vuole mostrare a tutti i costi la grandezza della battaglia che hanno combattuto, per poi perderla. Far intuire al suo lettore che c’è dell’ingiustizia in quella sconfitta. E per fare questo s’inventa un linguaggio tutto nuovo, il verismo: questo modo di raccontare la realtà dicendo la verità, anche quando la verità può offendere, indignare. Ha dell’epica Nedda: c’è dell’epica nella narrativa del Verga. La vita è un’epica, combattuta per salvaguardare i tre miti dell’uomo d’ogni tempo: la roba, la terra e la casa. Questa è la guerra che i suoi vinti hanno perduto: “Se non hai non puoi amare, nè vivere, nemmeno sorridere – sembra bisbigliare da sotto i suoi baffi – Non puoi nemmeno vivere pienamente: muori un poco ogni giorno”. E in questa battaglia si combatte anche il destino della misericordia: quella verace, franca dei poveri che, senza declinarla teologicamente, la vivono però e la offrono con sfumature diverse, fino a penetrare potente nell’animo del lettore. E quella negata: una serie di drammi personali che s’intrecciano, alternandosi, con una risposta positiva, l’indifferenza o il rifiuto, dispiegando l’influenza che le convenzioni e gli egoismi esercitano sulla capacità di misericordiare e di lasciarsi misericordiare.
Nedda, la mia Nedda, non ha una patina sociale (o religiosa) da mantenere: non ha manco la reputazione d’essere un’anima pia! È soltanto una poveraccia, una povera di spirito, che riesce, però, ad intonare il canto della misericordia fino alla fine della sua disgrazia, pur in mezzo alla tragedia più cupa. Perdona il suo destino, perchè è lei, prima di tutto, a sentirsi bisognosa del perdono. È questo, alla fine, a renderla autenticamente cristiana. Alla faccia di chi, vedendola con il suo pancione senz’essere ancora sposata (viveva in una “situazione irregolare”, ndr), le riservava un’accoglienza evangelica: «Quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse tutto il tempo ginocchioni – se la vedevano piangere pensavano a chissà che peccatacci, e le volgevano le spalle inorridite». Mentre lo zio Giovanni «la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile. E le impedì così di morire di fame».
Consegno il tema, con ventiquattro anni di ritardo. E, consegnandolo, dico il mio grazie a Nedda: per avermi confidato, anzitempo, l’intimità della sua fede. Il cui mistero non è mai dato all’uomo comprendere. Nè tantomeno oltraggiare.
«Era una ragazza bruna, vestita miseramente. (…) Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo. (…) Di tempo in tempo un pensiero doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri della vendemmia, o alle sere d’estate, quando, con la più bella luna del mondo, si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente (…) e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera» (Nedda)