Il Congo è forse tra i paesi più emblematici per spiegare la ricchezza di risorse dell’Africa e, al contempo, la povertà africana, della quale l’Europa e tutto il vecchio mondo, comprese le nuove tigri asiatiche, non sono immuni da colpe. Perché non è la mancanza di risorse prime da sfruttare il problema del Congo, bensì come e da chi esse siano utilizzate.
Un Paradiso terrestre, ricchissimo di risorse naturali: foreste pluviali, riserve idriche, piantagioni di caffè, zucchero, cotone. Ancora più ricco è il sottosuolo, che offre petrolio, diamanti, rame; ma, soprattutto, minerali fondamentali nella produzione di telefonia cellulare e prodotti elettronici, come cobalto, tantalio, tungsteno e stagno e, in particolare, il coltan (raro minerale, di cui il Congo detiene il 50% dei giacimenti mondiali). È proprio l’estrazione di questo materiale ad essere una tra le principali cause dell’attuale instabilità economica.
«La guerra – nata per garantire il monopolio del prezioso materiale nelle mani di pochi affaristi – ha causato migliaia di vittime, costringendo la popolazione in uno stato di assoluta povertà. Le miniere sono concentrate a Est, nella provincia di Kivu. Le condizioni dei minatori (molti sono ragazzi giovanissimi) sono al limite della sopravvivenza: lavorano dall’alba al tramonto in cunicoli soffocanti, spesso trasformati in trappole mortali dagli improvvisi allagamenti; vivono accampati in tendopoli costruite con lamiere e materiali di fortuna; sono decimati dalle malattie e privi di assistenza medica. Ma sono soprattutto alla mercé delle bande armate che li derubano, li uccidono e violentano le loro donne per assicurarsi il controllo delle miniere» (La Stampa)
La Repubblica Democratica del Congo si trova al 176esimo posto (su 188) dell’Indice di sviluppo umano: 1 bambino su 10 muore prima dei 5 anni ed il reddito pro capite di 485 dollari l’anno. A ciò è da aggiungere che l’ex colonia belga (indipendente dal 1960) è insanguinata da più di vent’anni di guerra civile (dal 1996 al 2003), oltre ad una corruzione diffusa, in particolar modo nell’amministrazione pubblica.
Il 6 giugno 2017, a Ginevra, è stata aperta un’inchiesta internazionale con l’accusa di presunte violazioni dei diritti umani, a seguito del ritrovamento di 42 fosse comuni, con diverse centinaia di vittime, nella provincia di Kasai.
Troppo impegnati a conteggiare i profughi che scappano all’estero, noi occidentali rischiamo di dimenticarci della piaga dei profughi interni, di cui il Congo è un esempio: nel 2016 il computo arriva a 922 mila (poco meno di un milione!) nuovi sfollati interni. Per intenderci, stiamo parlando di un numero superiore a quelli di Siria (824 mila), Iraq (659 mila), Afghanistan (653 mila), Nigeria (501 mila) e Yemen (478 mila).
Attualmente i congolesi che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni sono 3,7 milioni, di cui un milione sono da considerare “nuovi”, causati dalle violenze avvenute nella provincia centrale di Kasai. Più della metà dei rimanenti si trovano invece nel Kivu, dove tutt’ora persiste (da più di vent’anni) la guerriglia tra gruppi armati, per accaparrarsi le risorse naturali del territorio, a scapito della popolazione civile.
«C’è il rischio che gli scontri nel Kasai siano utilizzati dal presidente Kabila per rinviare le elezioni all’infinito»denuncia suor Lucie Tokoyo, missionaria comboniana, da anni nella Repubblica Democratica del Congo.
La realtà più agghiacciante è che tutto ciò prosegue nella sostanziale indifferenza collettiva, in un assordante silenzio mediatico, nonostante, in 20 anni, il genocidio ancora in corso abbia causato più di 6 milioni di morti (Left.it).
Il motivo è palese: se nel Paese permane l’instabilità politica, è possibile mantenere basso il prezzo delle materie prime, favorendo gli affari di chi lucra sulla miseria altrui.
«Il problema attuale del Congo – spiega Massimiliano Salierno, direttore dell’Anpil, in’intervista rilasciata a Radio Vaticana e ripresa da Repubblica – è la successione alla presidenza di Kabila. Il suo mandato è scaduto da un anno, ma non ha alcuna intenzione di lasciare il potere. Gli scontri più sanguinosi non sono a Kinshasa, la capitale, ma nella provincia come quella del Kasai, una regione mineraria dove è difficile l’accesso, come del resto succede in tutte le regioni minerarie del Congo, che si possono visitare solo su invito da parte di autorità locali. La regione del Kasai – ha aggiunto Salierno – è quella dov’è nata l’opposizione a Kabila e dove viveva il suo storico contendente, Étienne Tshisekedi wa Mulumba, fondatore dell’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale, morto recentemente».
È di domenica sera l’ultima triste novità: a Bunyuka, una delle dodici parrocchie di Butembo, nel Nord Kivu al confine con Uganda e Ruanda, un gruppo di miliziani, dopo aver depredato le strutture della parrocchia, ha sequestrato il parroco ed il viceparroco, di cui non si hanno più notizie. Non è la prima volta che accadono episodi simili, nella zona.
È vero, è estate e forse siamo più portati a cercare svago e spensieratezza. Notizie come questa, però ci richiamano alla mente che ogni vita ha valore, e che, alle volte, con troppa superficialità, non ci rendiamo neppure conto di come prodotti per noi pressoché quotidiani sono spesso la causa di tanta povertà o, tante volte, ottenuti per mezzo dell’odioso sistema del lavoro minorile o anche solo dello sfruttamento del lavoro sottopagato di tanti uomini come noi che hanno l’unica colpa di essere nati nella parte sbagliata del mondo.
Quella dove poter accedere a cibo, acqua e sicurezza non sono garanzie sociali, ma lusso di pochi, da conquistarsi ogni giorno, col sudore della fronte e spezzandosi la schiena nelle miniere. Che arricchiscono le tasche di altri.
Fonti:
Repubblica: Congo, i profughi interni sono più numerosi di quelli della Siria
La Stampa: Congo, viaggio nell’inferno del coltan
Agensir: Congo, missionaria – stragi nel Kasai pretesto per Kabila