«Sangue di martiri, seme di cristiani» ebbe a dire Tertulliano, non nascondendo, in questo, un certo stupore nel vedere come le persecuzioni, invece di fiaccarli, ne accrescevano il numero.
Del resto, scorrendo il martirologio, c’è da impallidire. Viene quasi da pensare che il martirio sia – per così dire – l’unica fine possibile per un cristiano, stando al numero esorbitante di morti per martirio, che si incontrano, leggendo i nomi dei santi, che ci hanno preceduto nella fede in Cristo. Il pensiero scivola, inevitabilmente, alla Chiesa primitiva, alle sue molteplici vicissitudini e fatiche, nella fase di costruzione della propria identità, in seguito alla morte del Maestro. La realtà va oltre le nostre superficiali aspettative, dal momento che, forse sorprendentemente, il Novecento si rivela come il secolo che ha visto il martirio di cinque milioni di cristiani. Ci stupisce perché, se pensiamo al martirio, pensiamo agli spettacoli con le fiere, agli imperatori che vedevano messa in discussione l’unità geopolitica e la loro autorità imperiale in quel rifiuto al politeismo, che – tutto sommato – accomunava i cristiani agli ebrei. Anche la geografia diventa sorprendente. Non ci sono infatti solo vittime in Asia ed Estremo Oriente, dove – a torto – riteniamo che la fede sia meno viva, solo perché di attecchimento più recente, ad esempio, in Giappone (ma, in diverse nazioni, come la Cambogia, ci sono numeri esorbitanti di fedeli che frequentano le Messe e numeri da capogiro nelle vocazioni religiose). Possiamo ricordare Oscar Romero, in America Latina. Ma anche in Europa: basti, su tutti, il nome di Jacques Hamel, sacerdote ottantacinquenne, sgozzato mentre stava celebrando Messa, a Saint-Étienne-du-Rouvray, in Normandia.
Parlare di martirio espone – evidentemente – a due equivoci estremi.
Da una parte, più o meno esplicitamente, molti, tra noi, vorrebbero semplicemente liquidare una questione come “cosa dei tempi andati”, un po’ demodé, ormai del tutto – o quasi – priva di significato e rilevanza nella nostra vita. Un fatto storico, eventualmente. Un evento da commemorare, magari a livello liturgico, che, però, limita la sua portata significativa alle quattro sacre mura della chiesa ove un tale rito si può svolgere. Non interroga in alcun modo la mia vita. Non si rivolge a me. Non mi richiama a nulla. Non mi comunica nulla, se non il dispiacere, per una vita – più o meno giovane – spezzata con cieca violenza. Una forma di ingiustizia, potremmo definirla, che, in fondo, però, non si differenzia particolarmente dalle tante e varie forme di ingiustizia che – nel mondo – avvengono con frequenza quotidiana e nell’indifferenza collettiva.
Dall’altra, c’è poi il rischio – piuttosto raro, numericamente parlando, in verità – della ricerca del martirio. Di fronte alla nobiltà di chi è disposto alla morte, pur di non recedere dalle proprie idee, potrebbe instillarsi, negli animi più nobili, il desiderio dell’emulazione.
Ci troviamo su un crinale impervio e scivoloso e le singole parole acquistano, in questo caso, un valore poderoso e fondamentale.
«Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» afferma Paolo (At 21, 13), dicendosi, quindi, disponibile. Sappiamo che non saranno soltanto parole. Paolo, come quasi tutti i discepoli, muore martire. Ma è bene ricordare qualche dettaglio di quel che riguarda la sua prigionia e la sua morte. Paolo è ebreo, figlio di farisei, convertito al cristianesimo, mentre stava andando a perseguitarli a Damasco. Non pago, a complicare la sua situazione personale, Paolo è anche cittadino romano, per nascita, avrà modo di specificare, dal momento che era anche possibile acquistare il diritto alla cittadinanza romana (come vediamo in At 22 – 26). Paolo non nasconde quest’altro dettaglio: non nasconde, proprio quando ciò gli risparmia dolore e sofferenza, perché, in quanto cittadino romano, non può essere frustato prima del processo (At 22, 22), né condannato alla crocifissione, motivo per cui gli sarà tagliata la testa, presso la via Laurentina, a Roma. È curioso rilevare che, nonostante la copiosa produzione di lettere a lui attribuite (probabilmente, non tutte effettivamente da lui scritte) e nonostante possiamo ricavare molte informazioni sulla vita di san Paolo dagli Atti degli Apostoli, in questi ultimi non vi sia traccia del martirio. Se «la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola» (Fil 1, 14), perché, allora, l’Apostolo pare “tirarsi indietro” di fronte alla flagellazione, oppure rimarcare la propria diversità civile rispetto ai correligionari, preferendo una meno cruenta decollazione alla crocifissione?
È bene chiarire cosa vi sia in gioco (e cosa no!) con il martirio cristiano. Innanzitutto, è opportuno ricordare che, per qualunque cristiano, Gesù Cristo non è semplicemente un’idea, una convinzione. Si tratta di una Persona che, nel caso specifico cattolico, è la Persona della SS. Trinità che si è incarnata per la salvezza dell’uomo, Vero Dio e Vero Uomo. Quindi si tratta di morire non per la fedeltà ad un’idea, bensì ad una persona. A questo punto, però, si inserisce un punto fondamentalissimo. Chi è questa persona, se non colui che vuole la mia salvezza e mi ama a tal punto da offrire, liberamente, la sua vita, per me, in modo pieno e totale? Lui mi ha riscattato, con il suo sangue. Per il suo sangue, siamo diventati dei liberti, mentre, prima, non eravamo altro che schiavi?
Se Cristo stesso ha offerto la sua vita per la mia, non c’è bisogno che io muoia. “Tutto è compiuto” (Gv 19, 42). Non manca nulla alla redenzione e non è certo un uomo, chiunque sia, a potervi aggiungere qualcosa che non abbia già potuto offrire il Figlio di Dio.
Non è quindi in questo senso che possiamo leggere il martirio. Cristo ha già dato tutto e non rinnega nulla di quello che ha fatto. Per ciascuno di noi, ha già dato tutto il suo sangue, si è donato fino all’ultima goccia, senza trattenere nulla per sé.
Il martirio, allora, diventa un atto di fedeltà a Cristo, senza diventare disprezzo di sé, né – tanto meno – autolesionismo. Il martirio è tale solo nella misura in cui si manifesta come disponibilità al martirio, non offerta o provocazione al martirio. Perché il cristiano ama la propria vita, anzitutto perché donata da Dio e perché redenta da Lui. Siamo creature, affidate alle Sue mani. Quando offriamo la nostra disponibilità stiamo testimoniando (tant’è vero che deriva dal greco μάρτυς – testimone) la nostra fedeltà a Cristo, non la nostra volontà di morte o il nostro disprezzo per la vita. Ecco perché il cristiano non cerca il martirio, né lo vuole, ma lo accoglie, qualora inevitabile, come mezzo per rimanere unito a Cristo, anche al di là della sofferenza. La scelta è per Cristo, anche a scapito della morte, ma solo se necessario.
Ecco perché è massima coerenza quella che Paolo esprime quando, dettosi disponibile al martirio ed essendo poi effettivamente martirizzato in spregio alla fede in Cristo, non per questo, però, si espone ad una sofferenza che può evitare, senza rinnegare Cristo.
In altre parole, al cristiano non è mai chiesto di disprezzarsi: ciascuno di noi è la creatura per la quale Dio dà la vita, come potrebbe chiederci disprezzo? Quello che ci è richiesto è – piuttosto – dimenticare noi stessi, in Cristo: assumere la prospettiva di Cristo ed amare sia noi stessi che gli altri in Cristo. Il che non significa amare di meno, anzi! Significa amare attraverso gli occhi del Crocifisso, che era capace di perdonare i propri persecutori ed aprire le porte del Suo regno al ladrone pentito. Significa lasciarsi inondare dalla sua grazia, perché essa, lavorando in noi e per noi, possa trasformare il nostro piccolo amore, perfezionandolo fino ad assomigliare al Suo amore senza misura.
Vd. letture festive ambrosiane, nella IV Domenica di Pasqua
Fonte immagine: Michelangelo, Crocifisso nella Basilica di Santo Spirito, Firenze
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