Come gabbiani, il cui destino è vivere “balenando in burrasca” (Cardarelli). Eppure al silenzio oscuro dei monasteri il cristianesimo ha preferito il rischio del sangue e l’alfabeto della miseria. Perché nel momento massimo dell’oscurità possa splendere una stella per additare il cammino: sin dai tempi di Erode è stato tacciato d’essere la storia più ambiziosa e paradossale del mondo. Per Ivar Benjamin Oesteboe il 22 luglio è una data malefica: giusto un anno fa, un killer ha aperto il fuoco nell’isola di Utoya dove un gruppo di ragazzi era impegnato in un campus estivo, tra politica e natura: probabilmente stavano riflettendo sul futuro del pianeta, sul possibile protagonismo giovane in politica, sull’organizzazione della speranza per la loro nazione. C’è anche una giovinezza che continua a crederci, a investire, ad immaginare uno stile diverso di essere e di esserci dentro le loro esistenze. Sessantanove suoi amici sono caduti sotto la furia omicida. Per uno strano destino – che spesso altro non è che il vestito indossato dal buon Dio quando decide di viaggiare in borghese per le strade del mondo – Ivar è scampato alla strage; non sempre scampare, però, significa sentire il cuore battere di gioia. C’è chi esce con una forza in più come Viktor Emile Frankl, c’è chi avverte la colpa di non essere morto pure lui come Primo Levi; e c’è chi come Ivar ha deciso di tornare a vivere nel nome degli amici. Perché nessuno muore se vive nel ricordo di chi resta.
Pensare di reggere il mondo e la storia con le sole forze umane è una “metafisica sciocchezza”, sentenziava il filosofo Max Scheler. Forse è sull’onda di tale convinzione che Ivar avrà pensato spesso a Anders Behring Breivik, il killer che ha rubato amici e complicato la speranza. E in quei giorni bui gli ha scritto una lettera: “Tu crederai forse di aver vinto (…) – scrive Ivan all’assassino – A Utoya, in quella calda giornata di luglio, tu hai creato alcuni fra i più grandi eroi che il mondo abbia mai prodotto, hai radunato l’umanità intera”. Non c’è la collera del mondo adulto e non s’avverte nemmeno l’ingenuità del mondo infantile: è la voce di un’anima giovane che trova il coraggio di riorganizzare la speranza nel cuore dei sopravvissuti. E’ una pagina di quel quinto Evangelo che ogni uomo è chiamato a scrivere e che racconta di chi ha contemplato in anteprima il prodigioso duello tra la Vita e la Morte, scorgendo la forza del Bene non soccombere del tutto: “Io non sono arrabbiato – conclude il ragazzo – Io non ho paura di te. Non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il Male, come vorresti tu. Noi combattiamo il Male con il Bene. E noi vinceremo”. La morte dei suoi compagni in quei giorni veniva raccontata da loro stessi “in diretta” su Twitter e Facebook. L’ultimo grido d’aiuto l’hanno lanciato su queste piattaforme virtuali mai così apportatrici di speranza concreta: “ti voglio bene” ha scritto una ragazza alla madre qualche istante prima di morire. La prima sparatoria avvenne a due passi dal Nobel Peace Center, dedicato ai grandi uomini che negli anni hanno ricevuto l’ambito riconoscimento; la seconda in un’isola popolata da giovani storie assetate di sano protagonismo. Contro la pace e contro la giovinezza: certi simboli, letti a posteriori, quando vengono attaccati hanno un che di malefico.
Dopo un anno dalla strage ciò che rimane è il profumo di quel messaggio di speranza perché – come canta Eros Ramazzotti – “ogni bufera può strappare un bel fiore però non l’intera primavera, non può raderla al suolo non può”. E da qui riparte la vita: aggrappandosi ad un raggio di Luce tratteggiata con colori giovani. In perpetuo volo come i gabbiani di Cardarelli.
(Editoriale di Avvenire, sabato 21 luglio 2012)
Dopo aver fatto esplodere l’autobomba nei pressi degli uffici governativi, il killer Andres Behring Breivik si è avviato verso Utoya, vestito da agente. Arrivato sull’isola con un traghetto, Breivik con una scusa ha fatto riunire tutti i giovani in un punto, ha estratto la mitragliatrice e cominciato a sparare sulla folla, arrivando ad uccidere 69 giovani tra i 14 e i 20 anni. Dopo un’ora e mezza la polizia ha fatto irruzione sull’isola e l’attentatore si è consegnato senza opporre resistenza. Breivik, secondo alcune prime testimonianze in stato di shock, non avrebbe agito da solo, ma le ricerche e le indagini della polizia norvegese su possibili complici non hanno individuato altre persone. Infatti le testimonianze più attendibili e “a mente fredda” dei sopravvissuti della strage di Utoya hanno descritto il solo Breivik che sparava con freddezza, senza correre e senza urlare.
Christian Hatlo, responsabile delle indagini, ha infine stabilito che Breivik ha agito da solo.