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Era il cuore dell’inverno. Il gelo abbracciava ogni cosa, stringendo piante ed animali nella sua morsa ghiacciata. Un piccolo pettirosso, stanco, affamato ed infreddolito, zampettava di ramo in ramo, cercando una briciola di riparo. Un arbusto si mosse a pietà e decise di contravvenire alle rigide leggi del periodo: offrì le proprie foglie ingiallite per scaldare il piccolo volatile. Quel gesto gli vale il biasimo dei suoi simili, ma non passò inosservato a Colui che presiedeva al ciclo delle stagioni, che decise di fare un regalo alla pianta: da quel momento in poi essa sarebbe fiorita in pieno inverno, ricoprendosi di una cascata di piccole stelle dal profumo soave. Era appena nato il calicanto.
Nello stesso periodo, in un’altra parte del mondo, le implacabili temperature invernali non davano scampo alcuno ai piccoli animali del bosco. I più deboli e indifesi non erano riusciti ad avere una tana o un nido, in cui riposare e scaldarsi e tutti gli alberi del luogo temevano una qualche punizione divina, se mai si fossero azzardati a far spuntare anche qualche sola misera foglia. Ma un gruppo di questi non riuscì a rimanere impassibile dinanzi alla sofferenza altrui e, con uno stratagemma, si ricoprì di foglie così piccole e fitte da non sembrare nemmeno tali, ma solo tanti piccoli aghi. Gli animaletti, grati, si rintanarono tra i loro rami, trovando la salvezza. L’Inverno scese a far visita a quei dissidenti dall’alto fusto, ma, anziché rimproverarli, fece loro un dono: sarebbero diventati alberi sempreverdi. Avrebbero ricordato, in ogni stagione, che la pietà per i più deboli può avere l’ultima parola anche sulle leggi della natura.
Due leggende, più favole che altro, con una morale così semplice che la capirebbe anche un bambino. Belle, vero? Edificanti. Ti fanno esclamare senza indugi “uh, ma che brave e coraggiose queste piante, come mi piacciono!” Poi arriva la realtà. Nuda, cruda. Ti prende a pesci in faccia. Ti sbatte il suo essere il più delle volte implacabile. Altro che doni calati dall’alto. Altro che ricompense. Ti fai fiore, o foglia? Fuor di metafora, non accetti di allinearti alla banalità del male? Allora eccoti servito: una porzione di pubblico biasimo, un’abbondante spruzzata di “dagli all’untore contro il quieto vivere!” e per dessert il rovescio della frittata, quello in cui vieni annoverato tra le file delle vittime della macchina del male. Il lieto fine? Un miraggio che si realizza solo in una manciata di casi. Meglio quindi tenere questi moniti in vetrina, lasciando che tra il dire ed il fare scorra non tanto il mare, quanto un oceano.
Tutto inutile, quindi?
Ma nemmeno per sogno. Questo è quello che vogliono far credere coloro che ogni mattina, insieme ai vestiti, si abbigliano di frasi come “non spetta a me fare la differenza”, “non è un problema mio”, “hanno problemi? Magari se li sono meritati”.
Se fosse davvero tutto inutile, non saremmo qui, a fare memoria, anno dopo anno, di cosa è stato.
Non saremmo qui a ricordare chi, nonostante i mortali ingranaggi della macchina del male, ha saputo agire nel silenzio, come un granello di sabbia: a prima vista inutile, invece abbastanza sufficiente da saper rifiutare un sistema di odio in apparenza inarrestabile. Non saremmo qui a ricordare che alla fine di tutto il male non ha l’ultima parola, se troviamo il coraggio di fare in modo che gli esempi ricevuti continuino a camminare sulle nostre gambe, e poi su quelle dei nostri figli, dei nostri nipoti…
La banalità del male è come una morsa gelida e impietosa, una cortina buia e tetra che divide in “noi” e “loro”, un vento che rinsecchisce ogni empatia verso chi si trova su un gradino diverso dal nostro. Ma è anche qualcosa che può essere vinto, con un’azione che sembra essere solo una goccia d’acqua in pieno deserto, ma che, per chi la riceve, può fare la differenza.
“Sono forse il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9) è la prima domanda retorica della storia dell’umanità, la cui risposta venne oltraggiata prima ancora che venisse posto il quesito. Forse è per questo che è stata scritta in un eterno presente, perché ricordi ad ognuno che si è custodi gli uni degli altri a tempo indeterminato. Sempre. Anche quando tutto ciò che ti circonda vuole convincerti del contrario, che non è conveniente, che va contro il tuo stesso interesse.
S
ii il custode dell’umanità racchiusa nel tuo prossimo.

Fonte immagine: Flickr

 

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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