Come elefanti in un negozio di Swarovski: e anche il Prato (senza erba) più bello di Padova, per una notte diventa una discarica a cielo aperto colorata di rutti e di vomito, di escrementi e di pezzi di vetro, di svenimenti e di sirene spiegate. Lo stesso Prato che quest’anno è divenuto per due volte sinonimo di amore e solidarietà – con la Città della Speranza sullo sfondo – per una notte ha cambiato volto: dall’incitare la vita a non arrendersi nella battaglia contro la morte alla voglia matta di bere – fino allo svenimento – in nome di una sana socialità. Il bello e il brutto di una generazione nata con le prolunghe alle mani: sulla destra il mouse, sulla sinistra l’iPhone. Fino a far diventare la creatura umana una possibile succursale della Nasa. Dio disse: “facciamo l’uomo”, loro risposero “tu fallo e noi lo trasformiamo in un computer”. Nacque il mondo a portata di mano. C’è una bellezza incastonata dentro tale mondo ed è la forza dell’aggregazione che nasce dalla rete: sfuggono alle previsioni, complicano l’identificazione degli organizzatori, fanno dell’imprevedibilità la loro arma segreta ma anche il loro tallone d’Achille. Dietro la bellezza, però, c’è tutto il dramma di una festa a misura di disperazione: perché se basta bere e ubriacarsi per sentirsi protagonisti dentro il palcoscenico della vita, allora ci sono grammatiche per scrivere l’esistenza che non sono poi così inedite.
Il Botèllon è un’aggregazione di massa – chiamarla “festa” significherebbe irridere la liturgia del divertimento che anima la festa quand’è tale – che ci tramanda un’immagine un po’ distorta della giovinezza. E che condanna il mondo giovane ad intraprendere battaglie più fruttuose e stilisticamente meglio motivate per far sentire la loro voce. Dentro le arene giovani è troppo facile criticare i massimi sistemi, ingaggiare battaglie per grandi ideali, condannare atteggiamenti e decretare inutili certi pensieri se poi nel piccolo si complica il sentiero alla felicità. A sentirli sono tutti contro Monti e la sua “teologia del sacrificio”: salvo poi costringere gli ospedali ad investire soldi supplementari per arginare una festa che ha rotto gli argini. Il loro alfabeto è popolato di altruismo e di generosità: eppure quelle ambulanze potrebbero salvare la vita ad una mamma che sta partorendo, ad un vecchio che ha fatto un infarto, ad un padre feritosi nel lavoro notturno. O semplicemente arrivare in tempo laddove serve. Si potrebbe sempre obiettare: “per una volta, chissefrega!”, eppure questo non è da uomini capaci di pensiero e di azione. E’ semplicemente il vecchio trucco dei bambini che si mettono le mani davanti agli occhi con la speranza di non essere visti. Saranno stati cinquemila a sentire gli organizzatori: la questura magari dirà che erano poco più di mille, come nei grandi comizi politici dove più che il contenuto conta il numero. Eppure stanotte a Padova c’era anche un’altra giovinezza: ragazzi che servono in tavola per pagarsi gli studi, studenti che fanno volontariato al Pronto Soccorso, anime giovani capaci di sacrificare un sabato sera per accudire la nonna inferma o per animare la vita nel loro oratorio. Uomini e donne capaci di usare il tempo libero per costruire la vera festa del cuore, quella che quando finisce ti lascia un senso d’appagamento e non d’inutilità. Pochi raccontano questi “sabato sera”: troppo forte il rischio di irritare coloro che vivono al minimo sindacale.
Più che voglia di bere, feste come il Botèllon ci fanno gustare la normalità dell’altra faccia dei giovani: quelli che non accetteranno mai di lasciare che altri firmino la vita al posto loro. Resta il fatto che il grado di libertà di un uomo – come scrisse Alda Merini – si misura dall’intensità dei suoi sogni.
(da Il Mattino di Padova, 30 settembre 2012)