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Gli ultimi dati ISTAT sulle nascite in Italia sono, ancora una volta, drammatici. Nel 2020 ci sono stati 405 mila nati e 740 mila morti. Dal 2014, in particolar modo, il calo demografico sembra inarrestabile.
I bambini, insomma, non nascono più; si stanno estinguendo, in un certo senso. Ma dire che “non nascono”, significherebbe affermare una loro capacità di auto generarsi, di venire al mondo da sé. Per cui, se proprio vogliamo essere corretti, dobbiamo dire che “non si fanno più”, ovvero che chi potrebbe generare figli, non li fa.
I motivi li conosciamo: progressiva riduzione della popolazione in età feconda, posticipazione della genitorialità, instabilità finanziaria, incertezza per il futuro, disinteresse.
Ci troviamo così, in questo singolare periodo storico, ad affrontare due tipi di peste: la peste nera, la pandemia, con la sua sconvolgente irruzione nelle nostre vite, con i morti, le restrizioni, lo scontro aperto sui vaccini e l’altra peste, la cosiddetta “peste bianca”, che riguarda proprio il declino demografico italiano.

Lo stato sembra essersene accorto e ha deciso di correre ai ripari con un’iniezione di denaro nei confronti di chi ha figli, anche se questo gesto è più un sostegno, doveroso e a lungo atteso, nei confronti di chi è già genitore e non propriamente di chi desidera diventarlo.
Saranno 170 euro al mese a spingere i giovani italiani ‘a darsi da fare’?

Al di là di questo, però, della peste bianca, dei bambini che non nascono perché nessuno li fa,  c’è un’altra questione che andrebbe affrontata, quella dei genitori che, proprio in questo momento in cui le nascite non riescono a pareggiare le morti, si trovano tra l’orgoglio e la colpevolezza. Orgoglio per essere nel ruolo di chi ancora ha il coraggio di credere e scommettere sulla vita, sui figli e colpevolezza per averli messi al mondo. Una colpevolezza, sia chiaro, che non deriva da loro, dai genitori, ma da chi li giudica. Solitamente il giudizio proviene da chi non ha figli o da chi, ormai vecchio e triste, si è dimenticato di averli avuti in giovinezza.

Mi è capitato, più volte, di fronte ad amici o a colleghi, cui confessavo una qualche difficoltà a gestire tre figlie, difficoltà mai grave s’intende, di sentirmi rispondere, abbastanza freddamente “hai voluto la bicicletta, pedala”. Conforto e sostegno, mai. Accuse e giudizio, sempre. Sembra quasi che vogliano dire che, se un genitore si lamenta è solo perché se l’è voluta lui, essendo la colpa solo sua. I genitori, secondo questi, sarebbero come colpevoli di averli dati alla luce.

Ma chi, forse, paga di più lo “scotto”, la colpa, di essere divenuto genitore, purtroppo e amaramente, sono, ancora una volta, le madri, le donne, che di fronte a certi colloqui di lavoro possono sentirsi chiedere se hanno intenzione di rimanere incinte, persino se sanno di esserlo, in quel momento preciso, del colloquio, oppure se hanno già figli. Perché se li hanno già, è un problema. I bambini si ammalano, hanno bisogno di cure, devono essere portati di qua e di là, la madre dovrebbe restare a casa numerose volte e questo, un’azienda, non può accettarlo, non può sostenerlo economicamente, né, allo stesso tempo, moralmente, salvo rare eccezioni.

Più che come un dono inestimabile, alcuni, molti, vedono nella maternità qualcosa di cui si poteva fare a meno. Da qui il senso di colpa delle madri, che possono venirsi a trovare nella situazione assurda e paradossale non tanto di giustificare la maternità, ma di giustificarsi, come se dovessero chiedere scusa per aver desiderato e voluto un figlio, figlio che tra l’altro lo Stato reclama a gran voce.
Meglio, forse, sarebbe avere un cane, o un gatto, a questo punto, come ebbi modo di sentire da un vecchio signore, che diceva a un nonno che portava suo nipote al parco: – Meglio un cane di un figlio.
È strano, folle, che la specie dei sapiens sia arrivata ad accudire i piccoli di altre specie animali, ad avere quasi più attenzioni nei confronti di questi, che dei propri figli.
Ha provato a dirlo anche papa Francesco qualche tempo fa, rischiando il linciaggio mediatico.

Per cui, se si vuol far ripartire la natalità italiana, si può ben cominciare dagli incentivi economici, dal sostegno alla maternità, alla paternità, trovando tutti quei meccanismi e motivi che possano rilanciarla, ma si deve coltivare, allo stesso tempo, un sostegno completo alla genitorialità, per cui diventare genitori o desiderarlo deve essere visto solo ed esclusivamente come un fatto positivo, come un bene straordinario non solo per la coppia, ma per un’intera nazione. Bisognerebbe educare ed educarsi a non colpevolizzare i genitori, a non liquidarli con un semplice “l’hai voluto tu”. Perché un figlio è un fatto, un qualcuno, che deborda dalla copia, la supera, va oltre e diventa figlio di un intero popolo, di tutti quindi, anche di chi non vuole saperne.

Senza nascite, d’altra parte, l’Italia sta invecchiando terribilmente e alla fine di ogni vecchiaia, lo sappiamo tutti, non resta che la morte.


 Immagine royalty free

Alberto Trevellin (Padova 1988), laureato in scienze religiose prima a Padova, poi a Venezia, è insegnante di religione. Sostiene che i bambini salveranno il mondo e che senza di essi non potrebbe vivere. La mattina, quando si sveglia, guarda verso il monte Grappa, per il quale ha un amore smisurato. Ama camminare tra le alte cime delle Dolomiti, correre in mezzo ai boschi, andare per sentieri sconosciuti. È sposato con una donna che crede affidatagli da Dio e ha due bambine bellissime quanto vispe.

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