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Diranno che i veri miracoli sono ben altri: siamo tutti d’accordo. È pur vero, però, che certe volte basta un piccolo segno per aiutarci a credere che i sogni sono ancora possibili: perchè, dunque, abbassare l’asticella di un segno, con il rischio di finire poi a non credere nemmeno più a quei sogni di cui i segni sono traiettoria? La storiabella di Sofia Goggia (e Nicole Delago) ci ha fatti alzare, almeno stamattina, con il sorriso sul volto: “Vabbè, dai: è soltanto una gara. Non è mica la vita!” avrà detto qualcuno, forse un po’ corrucciato per i riflettori puntati su questa donna così velocissima e fulminea: nelle discese ardite, nei ragionamenti estrosi, con il suo modo un po’ naif di dire alla vita “Presente!” tra allenamenti massacranti, selfie con i tacchi a spillo, mucche e biberon in bella mostra sui social. Sì: quella di oggi è stata soltanto una gara. Una gara maiuscola, però: perchè un conto è vincere la gara del paese, un conto è vincerne una regionale, un altro ancora vincerne una di nazionale. Tutt’altra cosa è vincere una gara di Coppa del Mondo, oltre la quale rimane soltanto il top: vincere una medaglia alle Olimpiadi. Meglio se d’oro, ma anche d’argento o d’un bronzo maestoso non è proprio da cestinare. Una gara olimpica, signoritutti.
Che, già a considerarla da sola, vale minimo-minimo quattro anni d’attesa sfiancante: con la testa che non può minimamente distrarsi da quell’obiettivo ma nemmeno farlo diventare un’ossessione: sapere calcolare la giusta distanza tra lontananza e distanza, tra la prossimità e la vicinanza non è da tutti. A me, dello sport, piace da impazzire il LatoB, il dietro le quinte della vittoria: il suo lato sporco, le imperfezioni ancora tutte in fase di limatura, la prestazione non ancora perfette. Quella fisiognomica che, guardandola, non ci scommetteresti granchè che di lì a poco, o a tanto, possa tingersi dei colori d’oro, d’argento, di bronzo. Che poi, a conti fatti, è lo straordinario odierno dell’impresa di Sofia: ventitrè giorni fa stava galleggiando sulle stampelle, in preda ad un dolore fortissimo: stamattina, delle stampelle, non si riusciva più nemmeno a immaginarne la sagoma mentre lei si calava rock, a rotta di collo, giù per la picchiata olimpica cinese. Un made in China tutto originale, stavolta: nessuna limitazione, nessuna contraffazione.
Ogni qualvolta una atleta si rompe, parte il totocalcio delle scommesse: “E se ce la facesse, invece? Assolutamente no: la medicina dice che questa è la tempistica. Però loro sono atleti: hanno tempi di recupero differenti!” Questo è quello che si dice al Bar del divanoletto. Poi, però, c’è la pista e gli atleti non scendono mai dai cuscini del divano, ma buttano il cuore in pista. E loro, di fronte all’impossibile, si drizzano in piedi all’istante: “Perchè no?” si chiedono. Perchè, nella loro testa, il trattenersi è il limite della persona perennemente infelice. Noi, questa gente, la chiamiamo precipitosamente eroe: per stima, per eccesso, quasi una specie di discolpa per non averci creduto subito, anche noi assieme a loro. La cosa, invece, è forse più banale: non è questione di eroismo o di pusillanimità, è che quando c’è in gioco il tuo destino – o una parte infinitesimale che, comunque, andrà poi ad influenzare quella totale – ognuno prende i limiti del suo campo visivo e li fa diventare i confini del mondo intero. Ci sta. Sono i confini del mondo tuoi, però, non di tutti: è questo che, quando scocca l’ora x, fa la grande differenza.
Non tutti possono essere Sofia Goggia. Tutti, però, possiamo convincerci che i confini esistono per essere spostati: ogni confine, quando viene disegnato, calcola che nasca qualche guerra per tentar di modificarlo. Confini geografici e confini fisici, psicologici. A questa ragazza così naif, anche un po’ Bolero e tanto Rock and Roll, da piccola non devono mai averle negato più di tanto la libertà di colorare un po’ fuori dai bordi: in caso contrario non si spiegherebbe perchè, per tentare una cima, lei debba sempre rischiare una strada nuova, ovviamente sconnessa e con l’acqua alla gola. Questa sua testardaggine mi stuzzica così tanto da continuare a convincermi che l’impossibile esista fino a quando qualcuno non arriva e lo renda possibile. Senza mai dimenticare, però, che non tutti possono essere campioni. E non per questo le loro saranno storie senza sale nè pepe.

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