L’ avventura del popolo d’Israele ha sempre esercitato un grande fascino. Un popolo, ridotto in schiavitù, assoggettato agli egiziani prima, ai babilonesi poi. Un popolo piccolo, ma testardo. Cui Dio s’incaponisce di assegnare un privilegio di simpatia e primogenitura, secondo una sua propria predilezione, che va al di là dei meriti e dei continui tradimenti. Come un amante appassionato e pervicace, il “Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe” non si lascia turbare dalle deviazioni né dalla testardaggine, ma rimane fermo e fedele alla propria Parola.
Quando Mosè e chiamato da Dio a “far uscire” il popolo dall’Egitto, sono ormai anni che la sua gente è ridotta in schiavitù, soggiogata alle angherie degli egiziani e ai capricci del faraone di turno.
Dopo le celeberrime sette piaghe, inizia la vera sfida. Affrontare il deserto con una carovana infinita d’uomini, donne, bambini, anziani e bestiame al seguito.
Ed è qui che iniziano le mormorazioni, tra gli israeliti:
«Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine!» (Es 16, 3)
«Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Num 11, 4-7)
Queste lamentazioni avvengono quando già Dio ha mostrato la propria potenza. Ha sconfitto il faraone, ha fatto fuggire il popolo d’Israele dagli archi dei nemici, ha ridotto a nulla la temibile potenza militare egiziana. Ha procurato la manna.
Eppure, non basta.
Quella distesa di sabbia a perdita d’occhio spaventa il popolo, ne alimenta l’incertezza, la paura, la rabbia, la frustrazione. Il deserto rappresenta sempre una difficoltà, una situazione nuova e diversa da affronta, qualcosa che metter alla prova il nostro spirito d’adattamento.
Ecco allora che inizia la mormorazione, la rabbia verso Dio, ma anche verso i fratelli e chiunque ci stia intorno.
«Perché proprio a me?» è la domanda d’obbligo, che accompagna la “sindrome da Calimero”, che annusa ingiustizia in ogni luogo.
Anche a noi, spesso, capita di “rimpiangere le cipolle d’Egitto”. Fantasticare le leccornie di cui annusavamo l’odore, accanto alla pentola, che scoppiettava allegra. “Era meglio, quando si stava peggio” diciamo, forse, per consolarci. Forse per illuderci. Forse, per non essere mai contenti.
La realtà è che la libertà non è mai a prezzo scontato. Richiede tutto il nostro essere, tutto il nostro coinvolgimento, tutta la nostra responsabilità, ma anche fantasia, pazienza, abnegazione.
Alle volte, anche noi, come il popolo d’Israele, preferiamo “rimpiangere le cipolle d’Egitto”, piuttosto che accogliere la sfida di una libertà che ci interroga sul campo dell’incertezza, dell’innovazione, dell’adattamento, della flessibilità, del coraggio d’intraprendere una strada nuova, ancora da tracciare.
Ogni scelta comporta una rinuncia. Non c’è da essere tristi per quanto si lascia. È una necessità irrinunciabile, per essere veramente liberi, anche quando ciò costa un pizzico di fatica, magari qualche lacrima come una carezza ruvida che però fa crescere.
Perché, se non impariamo a lasciare andare qualcosa, finiamo come le scimmie, che affondano le zampe anteriori voracemente nei barattoli del cibo, ma poi non riescono più ad estrarle dall’imboccatura stretta, perché rifiutano di lasciare andare una parte del cibo che hanno arraffato.
Saper lasciare andare è la sfida della libertà, in cui ci scontriamo contro le “cipolle d’Egitto” del rimpianto e dell’incapacità d’immaginare una vita nuova, secondo lo sguardo di Dio su ognuno dei Suoi figli amatissimi.
Fonte immagine: winedharma