«No, da noi è un’altra ricorrenza». Questa è la chiosa più utilizzata in un dialogo tra due cristiani cattolici di cui uno dei due non sia romano, ma appartenga al sacro gregge di padre Ambrogio.
Una di queste è quella di domenica. Dedicazione della Chiesa cattedrale, cioè il nostro Duomo di Milano, intitolata a Santa Maria Nascente.
Quell’edificio imponente, che domina l’omonima piazza, sormontato di guglie aguzze, decorato in ogni centimetro da statue e rilievi che ne ricoprono, quasi integralmente la superficie. Quel punto di riferimento di tante uscite, dalla preadolescenza in poi.
Il Duomo, in mezzo alla piazza, la vita brulicante della metropoli meneghina, tutt’attorno. Una città, che, a poco a poco, si sveglia presto: prima pendolari e studenti, poi commercianti, pensionati, turisti. E la cattedrale vigila, dando il buongiorno con la prima Messa delle 7, che non disdegna di presiederà lo stesso arcivescovo.
Eppure, anche qui, l’affidamento, filiale e fiducioso, è nei confronti di una Donna. Quella che l’Apocalisse definisce “vestita di sole” (Ap 12, 1) e che, anche in questo caso, possiamo contemplare, splendente e rassicurante, fare capolino tra le guglie, anche quando la caligine della scighera impedisce una visione nitida sulle cose e sulle persone. Nessuna paura, se lei veglia, su quella città che, forse più devota al lavoro che a Dio, non può che andare però lo sguardo, in cerca di lei che le ricorda Lui.
“Vergine e madre, figlia del Tuo figlio, umile e alta, più che creatura” la celebrava padre Dante, in quell’inno alla Vergine così sublime ed ispirato da essere stato ammesso nel novero degli inni liturgici delle celebrazioni della Madonna. Milano, città rude e laboriosa, celebra la cattedrale che caratterizza il rito che le è proprio e la caratterizza, che la rende un’orgogliosa minoranza di quella Chiesa universale, di cui pure fa parte. Anzi, parte attiva, donando al mondo intero tante auguste vocazioni. Basti pensare a tanti pastori e fondatori, da Sant’Ambrogio a San Carlo Borromeo. Senza dimenticare, poi, l’energico contributo fondamentale del santo padre Ambrogio nel guadagnare alla Chiesa di Cristo l’anima bella, profonda e tormentata del santo vescovo e filosofo Agostino, ancora oggi confronto imprescindibile di chiunque si cimenti con la filosofia, la teologia, ma anche la letteratura.
Il Vangelo di Giovanni, proposto in questa domenica particolare, ci fa vedere il Signore, sotto il portico del tempio di Salomone, proprio quando ricorre la festa della Dedicazione. Anche gli ebrei, quindi, ricordavano, già al tempo di Gesù, la consacrazione dell’edificio di culto di Gerusalemme. Una ricorrenza simile, dunque, che ci fa pensare, tra l’altro alla continuità di fede con il popolo ebraico. Pensiamo infatti, che Gesù, vissuto tra la sua gente, condivise le usanze ed il culto ebraici, durante la propria vita, pur contestandone l’interpretazione formale ed arida, che caratterizzava la religiosità di alcuni gruppi, come i farisei.
Nel passaggio al cristianesimo, che avviene nella persona stessa di Cristo, avviene però una modifica importante, anche nella concezione dell’edificio di culto. Il suo valore si amplifica enormemente, perché diventa non solo la soluzione pragmatica per le riunione intorno al principale sacramento cristiano (l’Eucaristia, che, nei primi tempi, era – strettamente – domenicale), ma anche, pur simbolicamente, testimonianza delle persone che al suo interno si raccolgono e che, unite al Capo, che è Cristo, e alla Chiesa invisibile (trionfante e purgante) formano il Corpo Mistico della Chiesa. Sulla scorta di ciò, diventa particolarmente significativo ricordare l’erezione di un edificio che renda culto a Dio, perché in esso si concentrano un enorme numero di benefici ricevuti, di cui rendere lode, dal momento che è all’interno dell’edificio della chiesa, e della chiesa cattedrale in particolare, che sono dispensati i sacramenti. Per quello che riguarda il Duomo, oltre all’Eucaristia, quotidianamente celebrata, va senz’altro ricordato il sacramento del sacerdozio, con cui sono ordinati, da secoli, i candidati al presbiterato dell’intera diocesi. Questo stretto legame tra edificio del tempio e persone ad esso legate per fede è, in realtà, già presente nell’ebraismo, dal momento che era chiamato “tempio” non solo il corpo architettonico principale e chiuso, ma anche il portico di Salomone, «dove il popolo s’intratteneva a pregare»[1]
Come trascorre, dunque questa ricorrenza della Dedicazione, Cristo? Impegnandosi in una disputa cristologica, cioè, impegnandosi a spiegare chi Lui sia, quale sia la sua missione e – conseguentemente – come interpretare correttamente le parole che costituiscono la predicazione di quella Buona Novella, che – ogni volta – puntualmente, dimostra di scompigliare le convinzioni in vigore.
La domanda dei Giudei nasce dall’incapacità di accogliere Gesù come Figlio di Dio (considerato come una bestemmia, sarà il motivo della condanna a morte); per questo, trasformano la loro domanda rispetto alla coincidenza tra lui e il Cristo. Nella concezione ebraica tradizionale, l’epiteto ha anche connotazione politica e questo lo avrebbe reso inviso ai Romani, che vedevano come fumo negli occhi i continui “Messia” che sorgevano all’interno del popolo ebraico, spesso presentandosi come agitatori politici. Lo accusano, anche, sottilmente, di predicare di nascosto (“dillo a noi apertamente”).
Gesù, però, non si lascia fuorviare e riporta il discorso all’origine. Innanzitutto, precisa che non è la mancanza di chiarezza ad originare la tensione che lamentano (“fino a quando terrai l’animo nostro sospeso”), bensì, la mancanza di fede (“ve l’ho detto e non credete”). Poi, al contempo, conferma la propria divina natura, la consonanza assoluta col Padre e la natura, potenzialmente universale, del messaggio di salvezza di cui intende essere diretto latore.
L’immagine delle pecore, oggi, rischia di essere quasi anacronistica, o, comunque, “fonte di malintesi”, come direbbe Antoine de Saint-Exupéry. A questi animali assegniamo l’etichetta del conformismo, della poca furbizia, della scarsa intelligenza. La loro umiltà li rende poco affidabile e affascinanti, ai nostri occhi. Forse, allora, è meglio trattenere con noi un’altra immagine, inerente alla sequela, tratta dal libro di Giobbe: «Alle sue orme si attiene il mio piede».
La sequela si gioca tutta in una logica d’amore, che ben è evidenziata da quel verbo “conoscere” che, nella Bibbia, tradisce un significato non solo di apprendimento, ma anche di rapporto emotivo e sentimentale profondo. Dice l’intimità, l’amore, l’affetto di chi, di fronte a una persona, pensa sempre – anzitutto – a guardarla negli occhi, assumendo su di sé non solo la gravità dei suoi problemi e preoccupazioni, ma anche l’ampiezza dei suoi sogni, aspettative e potenzialità. È in questa relazione che nasce il desiderio che “alle sue orme si attenga il mio piede”: è la fiducia che ripone chi sa che chi lo precede è più esperto, ma, soprattutto, ha a cuore la sua persona e, anche quando ci sono alcuni passaggi che rimangono poco comprensibili, c’è un amore che precede anche l’incomprensione intellettuale e intellegibile.
Come spesso accade in frangenti come questi, il rischio più grande consiste nel trasformare la solennità poi feconda in una sterile autocelebrazione. Quale antidoto migliore se non attingere al ricordo di ciò che comportò l’edificazione della cattedrale dei milanesi: la gratuità. Centinaia di persone misero al servizio di tutti quanto avevano. Certo, i ricchi, come spesso è accaduto nella storia della chiesa, hanno messo a disposizione i loro beni e le loro sostanze per poter sostenere le spese. Chi non aveva grandi ricchezze, però, condivise la ricchezza più grande: mise a frutto, gratuitamente, la propria competenza ed esperienza. Fu così per un numero imprecisato di muratori, manovali, scalpellini, incisori, di cui non sappiamo il nome, ma che regalarono con inaudita generosità il proprio tempo libero per un’opera di cui, pur non riuscendo – nella maggior parte dei casi, a vedere la fine, poterono comunque intuire la grande bellezza, nel poter essere a servizio dei cittadini e della città.
[1] Commento al Vangelo di san Giovanni, san Tommaso d’Aquino, ESD, 2019
Rif: Vangelo festivo ambrosiano, nella Dedicazione della Cattedrale (Gv 10, 22-30):
In quel tempo. Ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».