Suicidato per un esame non superato. Con in calce a tale gesto un biglietto ch’è la perfetta sintesi di un disagio arrecato nel cuore: “chiedo scusa”. L’ennesimo suicidio che nemmeno reca più scalpore tra le mille notizie di cronaca nera che rimbalzano di giorno in giorno sui giornali: tredici morti sotto i bombardamenti, quattro ragazzi si sono tolti la vita, cinquanta clandestini affondati nel mare, tredici dispersi nelle acque dopo un nubifragio. Solo l’abitudine – questa maldestra signora ch’è da millenni una morte pagata a rate come diceva il buon Peguy – ci salva dalla disperazione di un mondo alla disperata ricerca di un centro attorno al quale ruotare. Ci salva facendoci passare per “normali” queste tragiche notizie ormai di ordinaria amministrazione. Stavolta è stata la bocciatura ad un esame a scatenare l’inferno nell’animo dello studente in questione: altre volte è l’amore con le sue delusioni, la giovinezza con i suoi desideri infranti, la mancata corrispondenza tra sogni e realtà. Quasi che questi gesti ci vogliano raccontare la fragilità di un animo giovane che in cert’attimi dell’esistenza è sempre più incapace di reggere il ritmo e l’incalzare delle mille pressioni che avverte addosso.
In questi giorni la neurologa americana Adrian Galvàn dell’Università di Los Angeles ci avverte che l’adolescenza non è una passeggiata ma una sorte di campo minato dove ogni decisione viene messa alla prova e ostacolata dallo stress. Nello sport la chiamano “ansia da prestazione” ma, cambiati i termini, potrebbe funzionare in ogni dove dell’esistenza: nei banchi di scuole, negli uffici di lavoro, nelle sale d’attesa degli ospedali, nelle interminabili file ai concorsi. Chi regge è fortunato e forse un giorno s’inventerà a sue spese un manuale di sopravvivenza, chi magari non è così fortunato inizia a sentirsi inadatto, perdente e sconfitto fino a scegliere da lui stesso di chiudere anzitempo la partita. Lasciando scritto “chiedo scusa”. E togliendo il disturbo.
Il suicidio di un ragazzo è sempre un campanello d’allarme per una società che abbia a cuore l’educazione e l’allenamento dei suoi giovani. Oggi si nasce spesso e volentieri già piccoli campioni, decretate promesse e si finisce veramente a credere che nella vita valga semplicemente la vittoria qualunque essa sia: in fin dei conti sono i nostri adulti a insegnarci a tutti i costi come fare ad avere successo, a vincere, a gestire i “quindici minuti di celebrità” che ognuno è tenuto ad avere nella sua vita. Chi nel suo piccolo s’addentra nell’insegnare come si faccia anche a gestire una sconfitta, un insuccesso o una prestazione al di sotto delle aspettative passa per una riedizione della Cassandra dell’antichità apportatrice di sciagure. Quando, invece, è la vita stessa a mostrarci in presa diretta che il più delle volte ci sono sconfitte da gestire e da capitalizzare piuttosto che vittorie eclatanti di cui bearsi all’ombra degli allori. L’ha scritto un ragazzo sul muretto di una strada di montagna ed è un’affermazione evangelica degna della menzione più bella: “chi vince non sa che cosa si perde”. Scritta da una penna giovane non è solo un grido di denuncia ma un voler mostrare ad un mondo sempre più sordo alle voci dell’anima che è dentro la sconfitta che nascono i riscatti più belli. E’ un far sentire nostalgia di futuro perchè solo chi porta ferite nel corpo riesce a trasmettere il sapere con credibilità.
Educare i ragazzi è come fare una trasfusione di sangue: l’hai donato, non ti resta che attendere che da quelle vene esca la possibilità del più alto e del più modesto destino. Perchè l’esistenza è una libertà d’allenare e far gustare.