La prima lettura annuncia l’avvento di una novità, tratteggiata da immagini forti e sensazionali:
«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; / il leopardo si sdraierà accanto al capretto; / il vitello e il leoncello pascoleranno insieme / e un piccolo fanciullo li guiderà. / La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; / i loro piccoli si sdraieranno insieme. / Il leone si ciberà di paglia, come il bue. / Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; / il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso» (Is 11,9).
Ciò che accomuna tutte queste situazioni è la pacificazione, tra due tendenze, apparentemente opposte. Sembrano paradossali, per il fatto di essere distanti dalla realtà; sono allegorie, che vogliono farci vedere qualcos’altro e spingerci ad andare oltre le parole in sé. Ancora una volta, se noi guardiamo al mondo nel complesso, la tentazione più grande è la disperazione, perché noi non siamo capaci che di piccoli gesti e la sperequazione di sostanze tra chi ha e chi non ha rimane al di là delle nostre possibilità risolutive, pur percependone – anche se, magari, con una certa indifferenza di fondo – l’ingiustizia. Forse, il primo posto da pacificare è il nostro cuore, dove abita il lupo dell’invidia, il leopardo dell’ingordigia, il leoncello della superbia. Ma forse anche i non meno spaventosi spauracchi dell’insoddisfazione e della noia. A volte, i primi a cui dover tendere la mano siamo proprio noi. Quando la nostra vita diventa unicamente affanno, perché (ci illudiamo!) dipenda solo da noi, dobbiamo iniziare a mettere ordine. Accogliere, nelle profondità del nostro intimo, che Dio lavora in noi e con noi; non solo: oltre noi. Oltre noi, predispone quelle novità a cui il nostro cuore e la nostra vita non sono pronti, ma Lui renderà tali quando sarà il momento: come fece con quella ragazzina che abitava in una borgata della Galilea.
Solo a quel punto, potremo muovere, a piccoli passi, dal nostro deserto a quello altrui. Iniziando da piccoli gesti di pace possibile. Come evitare di sbattere la porta, quando usciamo di casa, salutare con un sorriso chi abita con noi, prestare attenzione con chi condivide con noi il pane e il proprio tempo.
Vi è poi una sottolineatura, ripresa nella seconda lettura (Eb 7, 14-25), che riguarda la discendenza di Gesù. La stirpe di Davide appartiene alla tribù di Giuda: il regno di Giuda, più piccolo degli altri, aveva potuto meglio resistere alla conquista, rispetto agli altri territori d’Israele. Quasi un simbolo di come Dio scelga “ciò che nel mondo è debole, per confondere i forti” (1Cor 1, 26). Parlare di un virgulto nato dal tronco di Iesse (padre di Davide), ormai inaridito dal tradimento e dall’allontanamento è la speranza di vita nuova, che nasce proprio dove sembra ormai impossibile riportarla.
«Ecco, faccio una cosa nuova:proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada,immetterò fiumi nella steppa. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» (Is 43, 19-21)
L’eredità di una discendenza richiama al fascino e alla sicurezza di una tradizione millenaria, a cui affidare le sorti religiose di un intero popolo, quello d’Israele. Ma il Dio “che fa nuove tutte le cose” ha in mente progetti più ampi e generosi: creare un popolo nuovo, a partire da un piccolo figlio d’Uomo, che nasce nella povertà di una stalla, alle porte di Gerusalemme, per poi morire – e risorgere, il terzo giorno! – alle porte della città. Ma rimane “sempre vivo” (Eb 7,25), così da essere l’unico, vero sacerdote, che intercede per noi, presso il Padre.
Questo è il sacerdozio nuovo, che annuncia la venuta di Gesù: non più una successione dinastica, legata al sangue, ma una chiamata per tutti (sacerdozio ordinario), nella sequela di Cristo, ed un sacerdozio ordinato (ministri del culto). A fronte della venuta di Cristo, nessuno può più, infatti, gonfiare il petto.
All’insistenza di domande a riguardo della propria persona, della propria identità e del proprio ruolo, il Battista non approfitta della fama che si era conquistata, ma mantiene fede a se stesso, negando di essere il Messia, o la risurrezione di qualche prestigioso profeta del passato, aderendo integralmente alla Verità, citando il profeta Isaia: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore» (Gv 1,23).
«Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me, ed era prima di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,27) specifica ancora, rinunciando ad ogni rivalità con il cugino. Con il Precursore, ogni altro predicatore è chiamato a fare lo stesso movimento, un passo indietro, accompagnato da una precisazione, reiterata dove serve: “non io, ma Lui”. Come la vocazione di San Giovanni, così il ministero ha la grande tentazione di attirare persone a sé. Non è questa, però, la vera richiesta di Cristo, che domanda di diventare messaggeri del Regno di Dio, di cui è necessario perpetuare l’annuncio “fino ai confini della Terra” (At 1,1-26).
Essendo Cristo l’Unico Sacerdote, di cui ogni sacerdote fa le veci, vero paradigma, per il prete – paradossalmente – risulta essere proprio San Giovanni Battista che, facendosi perenne annuncio di Cristo, diventa il primo proclamatore della Parola, fattasi carne.
Rif: letture festive della V Domenica di Avvento (Rito ambrosiano)
Solidando.net