È di legno. Legno povero, scolorito, invecchiato male.
L’ho recuperata dal magazzino: era in mezzo a brande arrugginite, televisori in fase di rottamazione, calendari stropicciati con madonne senza veli, materassi ch’erano abitazioni di topi. Ante d’armadio trasformate in strumentazione bellica, ferraglia dalle più svariate provenienze. Bidè da aggiustare, mensole da gettare, rimasugli di battaglie tra guardie e ladri. Tra detenuti infuriati e agenti in stato di sommossa. Tutt’attorno a Lei sterco di uccellastri notturni, l’odore dell’umidità, il porconare assorto e assorbente dei più variopinti tipi di canaglie umane.
Nella chiesa della galera, la prima volta che sono entrato, non ho trovato la Madonna: mi han detto che, siccome era brutta e rovinata, l’avevano mandata a svernare in magazzino. Pensavo scherzassero: non scherzavano. Tutto vero.
“Benvenuto nel paese dei matti!”, mi ha detto con simpatica gentilezza uno di quegli agenti ch’è salvagente dentro la galera. Mi sono fatto accompagnare nel magazzino a tutti i costi, costi d’apparire capriccioso, antipatico, fuoriposto: “Io, senza la Madonna, in chiesa non celebro. Scordatevelo”. Mi accontentarono: di lì a poco, scoprii dove avevano spedito a morire la Madonna. La trovai dentro quella cianfrusaglia di cose dimenticate, spaccate, guaste, marce, putride che in galera non servono più a niente. Quando, là in mezzo, l’ho adocchiata, mi son sentito a casa. Con quel ciarpame tutt’attorno, lei era ancor più bella, forse una delle versioni più belle della Madonna: incurante di materassi, reti e bestemmie se ne stava nella posizione che le è più consona: in piedi, il sorriso sulle labbra, le mani tese in avanti. Il Figliolo suo, con tre dita mozzate, proteso in braccio. Esposto alle intemperie, ai materassi bucati, alle ragnatele sui muri. Sembrava ripetere, nell’inedito dello sgabuzzino, le sue solite parole: “Prendete, mangiate, questo è mio Figlio”. Detto così: a pipistrelli, sorci, alle nutrie, agli scarafaggi: a quei pochi avanzi di galera che, noncuranti, le passavano davanti ogni giorno.
Nel frattempo, passando davanti, le poggiavano addosso sempre qualcosa in più: siccome era alta (la statua), le addossavano tutto. Persino da attaccapanni faceva funzione: c’era una muta di vesti da lavoro che, occhio e croce, nessuno avrebbe mai trovato il coraggio d’indossare da quanto sozza era. “Staranno qui minimo da dieci anni” è l’agente di Polizia Penitenziaria a confidarmelo.
Lui, qui dentro, ormai è parte integrante dell’arredamento carcerario.
Tornai dopo poco, volli tornarci da solo, infrangendo qualche regola, senza la pur minima accortezza di chiedere l’autorizzazione per aprir la porta. Recuperai una sedia, mi misi a sedere lì vicino a Lei e, recitando il mio rosario, la fissai per una buona mezz’oretta. La guardai, Lo guardai. Li guardai: assieme, a tenersi in mano, per mano, tra le mani vicendevolmente. A me, ch’ero per nulla avvezzo a quel mondo ingabbiato, pareva che, riflessi nei suoi occhi, vedessi specchiati gli sguardi di tutti coloro che l’avevano guardata prima di me. Era come se, senza saperlo, avessi risposto ad una chiamata: “Quando arrivi, cercami, che ti voglio presentare io gli uomini che stanno qui dentro”. Ave Maria, Padre Nostro, Gloria Patri. Salve Regina: nel rosario, mistero della fede, feci la prima conoscenza del mondo della galera. A presentarmi quei banditi fu Maria.
Non sapevo quale disperazione si nascondesse tra quelle mura.
L’intermediaria, quella volta, fece la differenza. La grande differenza: su ogni sgorbio d’uomo, c’è impresso Cristo. Col suo sangue, il suo sorriso.
“I traditori vanno combattuti, non traditi” sembrava dirmi sottovoce.
L’indomani, fiero come un ambasciatore che ha contribuito alla liberazione di un ostaggio sequestrato, assieme a tre “avanzi di galera” – uno era accusato di sequestro di persona, a scopo di estorsione: dunque era esperto di come trattar l’ostaggio – entrammo nel magazzino con un carrello di ferro e, poco dopo, ne uscimmo con la Madonna sopra. Una spolveratina, via: la portammo fuori quasi come l’abbiamo trovata. Mentre transitavamo per il centro della galera, quello dove dalle cancellate si affacciano come mostri gli uomini reclusi, continuava a mostrare in bella maniera il Figliolo, esposto come un ostensorio: “Prendete, mangiate, questo è mio Figlio. Abbiatene cura, fate questo in memoria mia”. Fu la prima processione mariana celebrata nella nostra galera: pochi si accorsero, più di qualcuno rispose al suo sorriso col ghigno, tanti non sapevano nemmeno che esistesse. Entrata nella cappella, ha trovato posto accanto al tabernacolo: sopra un piedistallo, proprio vicino al portone di ferro d’ingresso. È il primo volto che trovano ad accoglierli, è l’ultimo che salutano prima d’uscire. Siccome son tutti maschi – feroci, serafici, pestiferi e sensibili – guardandola incrociano le loro madri. Potenza della femminilità della Madonna: fa le veci di chi non c’è (ma vorrebbe esserci). Non è poco.
Induce a provare smarrimenti di meraviglia.
Più di uno, negli anni, vedendo in galera la statua della nostra Madonnina mi ha detto: “Posso restaurartela? È un mio piccolo pensiero per voi!” Anche tra le persone detenute, continuano a farsi avanti volonterosi: “Non vedi che è tutta rovinata? Se chiedi il permesso, la restauro io volentieri: guarda che un tempo restauravo mobili, nessuno li restaurava come me”. In quanto a modestia, sento che mi si avvicinano tremendamente. Il fatto, però, è un altro: non voglio affatto che restaurino questa statua. A me, la nostra Madonna, piace così: il colore un po’ slavato, il volto striato da un temperino, il suo Figliolo al quale qualcuno ha mozzato tre dita della mano sinistra. Temo che, se la restaurassero, non sarei più a mio agio quando la prego. Mi piace da impazzire: gli uomini, a forza di toccarla, hanno lasciato segni indelebili su lei. Adoro, in primis, quel suo mantello in legno ch’è tutto slabbrato ai bordi: sembra la gonna di nonna che, a furia di strattonarla, perdeva fili, si scuciva, sempre sull’orlo di sfilacciarsi. Quel mantello lo adoro così.
Guardandolo, ripeto quell’antica preghiera che il popolo recita da millenni:
«Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,
santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta».
Sotto la protezione del suo mantello.
(da Marco Pozza, L’invidia di Satàn, San Paolo 2021)