charlie hebdoC’erano due cose ovvie tra le mille probabili: la prima era che avrebbero insistito ad oltranza nello sbeffeggiare con la satira la fede musulmana, la seconda era la grande tiratura che il giornale satirico francese, Charlie Hebdo, avrebbe avuto nella sua prima uscita dopo la strage terroristica del 7 gennaio. Cinque milioni di copie – in certi attimi della storia alcuni oggetti assurgono al ruolo di reliquie – e l’immagine di un Maometto che campeggia in grande stile sulla pagina di copertina. Tutto ovvio, certamente prevedibile: sul buon gusto di una satira che offenda e irrida ciò che per l’uomo è più sacro, si può forse essere d’accordo. Anche non d’accordo, però: chi scrive è per l’ultima opzione.
Il dolore della strage è mastodontico. Solo ad immaginarlo possibile sembra di lambire il territorio della pazzia, di sforare quel possibile dell’umano che ogni tanto riesce ancora a sorprendere: per eccesso o per misura. Ciò che stavolta colpisce, invece, sono due particolari di quella copertina: piccoli, quasi infinitesimali, eppure degni di un cenno se a firmarli è stato un giornale laico, apertamente irriverente, irresponsabile come scrive di sé sotto il logo. La prima è quella lacrima che compare sul volto del profeta ritratto. C’è dunque un qualcosa di febbrile e di agghiacciante anche dietro la matita satirica di chi ha disegnato. Nessuna caricatura e ironia è riuscita a mettere il sigillo al dramma vissuto nella redazione di quel giornale. Le dimensioni colossali e fastidiose di quanto accaduto non ha permesso di passare indifferenti di fronte alla storia. Quella lacrima, uscita dalla penna irriverente di un giornale satirico laico, è una fessura, forse anche una feritoia attraverso la quale scrutare una dimensione ulteriore che, forse, non si era calcolata: quando il male si presenta con le vesti dell’esagerazione, le solite prospettive culturali e intellettuali sembrano non bastare per trovare una soluzione – o anche una semplice spiegazione – al male commesso e subito. Non resta che affidarsi ad una lacrima: ci sono uomini che considerano le lacrime indegne di loro, non sapendo che sono loro ad essere indegni di una lacrima versata. Di una lacrima condivisa con la storia.
E’ una piccola fessura nel granito delle loro convinzioni che, onestamente, a fari spenti appaiono meno convinte di quello che si mostravano: «Ce l’ho veramente con te, Charb. Che bisogno c’era di trascinare tutti in questa escalation?» – ha scritto l’ottantenne Delfeil de Ton, uno dei fondatori del settimanale satirico. Una redazione divisa in se stessa, dunque, a metà strada tra l’irriverenza totale e il limite suggerito. Una redazione che si ripresenta al mondo aggrappandosi ad un’espressione dai forti connotati di fede: «Tout est pardonné». Il perdono è una dimensione della fede: a giocarci, scomponendola, si scopre che in essa non c’è solo la misericordia ma c’è anche la gratitudine (“per-dono”). Usarla è riconoscersi arricchiti per un dono ricevuto, per una grazia concessa. Può, dunque, un giornale laico che sbeffeggia le religioni fare poi uso a suo piacimento di dimensioni che sono caratterizzanti proprio di chi va ridicolizzando? Noi pensiamo che gli sia concesso: ci sono degli eventi così densi di dolore e di angoscia che nessuna matita umana riesce a gestire. Eventi di proporzioni smisurate che necessitano di un’altra “misura” per essere disinnescati. Una misura che, stavolta, viene da loro scovata proprio nel cuore della fede: quando si è perduto tutto, sarebbe da folli continuare a intestardirsi nel dire “tutto bene” quando, invece, bene non va. Sono questi i momenti dell’inaspettato. Dell’ironia di Lassù: cacciato anzitempo il Cielo come trastullo per menti misere e miserevoli, rientra nascondendosi nella matita della satira per pennellare una lacrima e incastrarci una parola.
Non tutto sembra perduto.

(da Il Mattino di Padova, 18 gennaio 2015)

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