Un bronzo che nasconde il colore dell’oro. Al punto che chi di Carolina Kostner ha amato più le nebbie d’autunno che il sole dell’estate, in questi giorni non ama sottolineare che ha perso la medaglia d’oro per poco ma gioisce con lei perchè ha conquistato la medaglia di bronzo. Chi accentua la mancata conquista dell’oro cela un non so che di rammarico; chi esulta per la conquista del bronzo dimostra di saper leggere dietro il fascino di quella medaglia d’Olimpiade la traiettoria per niente scontata e prevedibile della campionessa altoatesina. Che in seno a quella prestazione – con la quale ha rasentato la perfezione atletica -, ha saputo sintetizzare la sua avventura di ragazza, di sportiva e di portabandiera dello sport italiano alle olimpiadi invernali.
Sui pattini è di un’insopportabile bellezza: la magia dei suoi movimenti, la concentrazione commovente dello sguardo, quella sinergia misteriosa tra fisico, corpo e anima. Eppoi la maestosità del gesto, la meraviglia di quel connubio tra arte e sport, tra musica e pattini, tra il ghiaccio del palazzetto e il fuoco della passione. Fin quasi alla dichiarazione d’amore verso uno sport che le ha dato motivazione, successo e notorietà: “Sono esaurita, penso di aver lasciato tutta me stessa sul ghiaccio”. Lei, e con lei quell’applicazione certosina che ha finito per fare di lei un tutt’uno con il suo sport: fin quasi a nascondersi dentro di esso. E come coagulante di tutto quell’umile appartenenza ad un popolo di faticatori nascosti, quello di chi pratica sport che salgono alla ribalta dell’attenzione ogni quattro anni, o poco di più: “Ognuno deve seguire la propria strada nella vita, qualche volta bisogna avere pazienza”. Tanta pazienza, un’infinita pazienza: quella che dalle Olimpiadi di Torino 2006 – con quel flop in mondovisione – l’ha portata al podio di Sochi 2014 passando attraverso la fatica di Vancouver 2010, laddove più di qualcuno pensava d’aver smarrito per sempre quella ragazza dalla classe cristallina che con le competizioni olimpiche sembrava non esser capace di far sbocciare il giusto feeling. La complicità necessaria.
Quel bronzo ha il sapore dello sport: passione, sudore, allenamenti. Ore e ore rattrappita nelle palestre di mezzo mondo a studiare e riprovare i movimenti, ad accordare il corpo con l’anima, la musica coi pattini, le figure con l’armonia. E’ una medaglia, però, che ha il sapore della vita e della passione: il talento senza applicazione non è nulla. L’applicazione senza concentrazione è vana, finanche impossibile. Forse per questo la sua impresa è una meravigliosa lezione d’educazione sportiva: mica era semplice gestire l’ansia di una prestazione durata anni, il peso di un pronostico sempre cucito addosso, la giusta dose d’orgoglio e d’umiltà. Eppoi quella splendida bravura di gestire una storia d’amore delicata e intricata: quella con Alex Schwazer. Non era da tutti: solo chi la nella mente le stimmate del fuoriclasse poteva reggere il peso di quegli attimi, lo stress di quei mesi, l’intima fatica di tenere assieme, seppur separate, la storia d’amore e le peripezie atletiche: l’uomo e l’atleta, la coppia e la professione, la responsabilità e gli affetti. “Ho avuto per anni davanti a me una montagna enorme – s’è confidata Carolina -, mancavano pochi passi per la cima. Sono i più difficili, ma quando li hai fatti ti godi la vista”. E gli altri contemplano la classe di chi, seppur campionessa, ha sempre saputo cucire in armonia la grazia e la disgrazia, la gloria e la cenere, la storia e i sogni.
Di Carolina non c’interessa il domani, ci gustiamo l’oggi. Il presente di una ragazza che nel bronzo di un’epopea sportiva ha saputo narrare la sua intimità di donna. Una donna “di bronzo”, non “d’oro”: a rendere preziosa una medaglia non è il metallo di cui è composta ma la storia che in essa si nasconde.
(da Il Mattino di Padova, 23 febbraio 2014)