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La prima lettura si colloca durante l’esodo degli Israeliti dal paese d’Egitto, inseguiti dal Faraone. Dopo aver accusato Dio di averli mandati nel deserto “a morire di fame” (Es 16,3), Dio procurò loro la manna, provvidenziale nutrimento, in quantità misurata per una giornata “perché a ogni giorno basta la sua pena” (Mt 6,34). Fiduciosi nella Provvidenza di un Padre che non ci abbandona mai, nella preghiera che ci ha insegnato Gesù siamo infatti chiamati a domandare “il pane fino al giorno di domani”.
Non paghi del cibo gratuito che avevano ricevuto, li cogliamo mentre esprimono la loro richiesta di mangiare carne, rimpiangendo le “cipolle d’Egitto”: enumerano infatti tutte le delizie che potevano mangiare presso gli Egizi, quale ricordo felice, quasi che esso fosse capace di compensare l’asprezza della privazione di libertà e dignità cui furono sottoposti per anni.

Il Signore accontenta anche quest’ennesima richiesta del proprio popolo, ma coglie l’occasione per “dare una lezione”, cioè uno spunto di riflessione, alla sua mancanza di fede: «Ne mangerete non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea, perché avete respinto il Signore che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché siamo usciti dall’Egitto?» (Num 11, 19-20).
Ecco, quindi che, in risposta all’esigenza della carne, dal mare, arrivano le quaglie. Nel deserto. Ai nostri occhi, è ancora più incredibile, pensando che – nell’immaginario collettivo – il deserto è simbolo della più assoluta povertà ed infertilità del terreno. In realtà, chi ben lo conosce sa che, per via del suolo arido, è vero che esso non produce una gran quantità di vegetazione, ma, ad ogni pioggia, lustra gli occhi degli astanti con la varietà dei colori variopinti che è in grado di mostrare. La vita, nel deserto, è – per definizione – faticosa, perché ogni cosa va conquistata – letteralmente! – col sudore della fronte. Per questo, sopravvivervi richiede sangue freddo, concentrazione e grande capacità di organizzazione.
Anche Gesù si ritira in un “luogo deserto”, non meglio specificato, per pregare. Pare sia un’abitudine consolidata, la sua. Cerca, costantemente, la comunione col Padre, tanto che arriverà ad instillare anche nei propri discepoli il desiderio dell’imitazione di questo suo atteggiamento: «Insegnaci a pregare!» (Lc 11,1). Doveva infatti trasparire con chiarezza come il suo modo di pregare fosse diverso da quello dei rabbini. Cristo, con la sua personalità e coi suoi gesti di guarigione, attira la folla, che lo segue dovunque e rimane ad ascoltarlo, fino a dimenticare il tempo che passa e l’appetito che avanza.
In questo brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci si colloca un richiamo, condiviso dalla lettura veterotestamentaria: il potere creatore della Parola. Dio parla, e tutto esiste (Sal 33,9): la parola di Cristo che trasforma la realtà è un chiaro segnale che non si sta parlando soltanto di un Maestro, ma che è “Dio come il Padre”. Come il Padre, nell’Antico Testamento dà la manna e le quaglie al popolo d’Israele che, nel deserto, temeva di soffrire la fame, così il Figlio ora moltiplica pani e pesci, di fronte alla moltitudine affamata.
I più sensibili al richiamo della tavola, del resto, sono proprio i discepoli, che lo invitano a congedare la folla, così da poter mangiare (probabilmente, innanzitutto, essi stessi!). Gesù, però, li prende in contropiede, con una risposta che, in italiano, suona ambigua: «Date loro voi stessi da mangiare!» (Mt 14,16). In essa, oltre all’esortazione a preoccuparsi per l’appetito altrui (e non solo il proprio), c’è l’invito ad un dono più profondo del cibo: “se stessi” rimane sempre il dono più gradito, a Dio e agli altri. Più che allungare un tozzo di pane, il vero dono è la mano che lo porge, lo sguardo che si dona e la volontà di condivisione. Se manca ciò, il dono è monco e, anzi, rischia di esserci la tentazione che sia solo una modalità di mettere in mostra la propria generosità e benevolenza. Inoltre, nonostante avrebbe potuto, senz’altro, far esistere dal nulla cibo per tutti, Cristo preferisce servirsi della collaborazione dei presenti. Mette in moto i discepoli, che ritornano con un cesto contenente “cinque pani e due pesci”. Giustamente, Giovanni ha modo di notare, nel suo Vangelo: «Ma che cosa sono per tanta gente?»(Gv 6,9). Probabilmente, noi avremmo anche accompagnato quest’osservazione con un sorriso di scherno: perché anche solo darsi la briga di presentare al Maestro quel magro “bottino” quale possibile soluzione al problema? È evidente, da subito, la scarsità della proposta, rispetto alla questione da risolvere!
Probabilmente, proprio questo è l’aspetto che più tocca l’uomo di oggi. La nostra grande tentazione è, spesso, quella di fare i calcoli del ragioniere, alla fine dei quali ci risolviamo che il nostro intervento sia assolutamente inutile e – dunque – preferiamo l’omissione di soccorso a qualunque, pur goffo, tentativo di porre rimedio al problema.
“La fame nel mondo? Chi potrà mai risolverla! La corruzione? Tanto fan tutti così, tanto vale adeguarsi al sistema! L’ingiustizia sociale? C’è sempre stata, dovrei risolverla io?”. Stando al Vangelo, la risposta è: sì, fai il primo passo, non importante se potrà pare perdente, di “piccoli passi” è costituito ogni cammino e, senza il primo a darne il via, non ne esisterebbe neppure uno. Magari, qualche altro passo si aggiungerà e, se alla volontà dei singoli, si aggiunge la benevolenza, i risultati sono decisamente al di sopra delle aspettative. Pensiamo all’opera di don Bosco, nata nell’assoluta povertà, che ora conta migliaia di succursali in tutto il mondo. Oppure, pensiamo all’opera di Madre teresa, che dalla più estrema povertà delle periferie di Calcutta, si è diffusa nel mondo intero, a ricordare che la più grande fame rimane quella d’amore. Sono santi, viene forse da dire. E qui sta l’errore, che evidenzia l’epistola: «Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento». (1Cor 10,11). Questo nasce come il commento alle vicissitudini del popolo ebraico, ma può essere esteso anche ad altre esperienze: è accaduto, perché potrà accadere. Una raccomandazione di S. Ignazio di Loyola ben sintetizza lo spirito del cristiano alla sequela, nel mondo: «Prega come se tutto dipendesse da Dio, agisci come se tutto dipendesse da te». Solo così, la fede non diventa alibi per l’ignavia, ma motore di nuova speranza, al di là degli apparenti e temporanei fallimenti che potranno accadere.
Sorprendentemente, infatti, a seguito della benedizione di Cristo, quel cestino, offerto, diventa un “pozzo senza fondo”, tanto da raccogliere dodici ceste piene di avanzi. La sovrabbondanza scaturita dalla scarsità conduce poi ad un elemento numerico fortemente simbolico: quegli egocentrici, che volevano abbandonare a se stessi la folla dei cinquemila, saranno il seme del Nuovo Israele. Riprova che, pur dall’imperfezione e dall’egoismo umano, la Parola di Dio sa farsi strada con efficacia, edificando il Regno di Dio, proprio dove le forze umane sono più insufficienti ad innalzarne le mura.

(da Solidando.net)

(Rif: Letture festive ambrosiane della III Domenica dopo l’Epifania)


Fonte immagine: huffingtonpost 

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