Il Dio pentito
Leggendo la Genesi, in particolare ciò che riguarda il diluvio e le vicende di Noè (che il vangelo di Luca richiama, in senso escatologico, al capitolo 17, 26 e ss.), capiamo meglio il turbamento del profeta Giona, che non accetta che Dio possa cambiare. Leggiamo, infatti, che Dio, che passeggiava con Adamo nell’Eden, osservando il dilagare dell’iniquità, si pentì di averlo creato e, anzi, desiderò di cancellare dalla faccia della terra non solo l’uomo, ma anche il resto della Creazione[1].
Come conciliare una simile lettura con gli attributi tradizionali di Dio?
Anzitutto, contrasta con la perfezione immutabile e stabile dell’essere. Stando al paradigma greco, il mondo del divenire mostra il cambiamento. Ma Dio, puro Essere, non può manifestarsi in questo modo.
Il male nel mondo: un problema mai risolto
Forse la prima interpretazione è il defectus litterae di origeniana memoria, che dimostra questo passo, cioè la necessità di adattare il linguaggio umano al livello umano, a costo di diventare imperfetto ed impreciso. Passi simili, in realtà, partono dal presupposto opposto. Cioè dalla domanda “Perché c’è il male nel mondo?”. Che ci sia, è un’ineluttabile constatazione. Che, però, non può accadere senza interrogare l’uomo sulle sue cause profonde e sulla sua origine. Posto che c’è, allora il problema si evolve nella ricerca del percorso che esso compie. Da dove viene, dove ha origine? Dall’uomo o fuori di lui? L’uomo è originariamente malvagio, oppure lo diventa? E, se lo diventa, come accade?
Se l’uomo è creatura di Dio, come pensare che siano del tutto estranee a Dio le opere della sua creatura? Più consono pensare, piuttosto che «perché egli fa la piaga, ma poi la fascia; egli ferisce, ma le sue mani guariscono»[2]. In altre parole: se Dio è sommo bene, come può accettare che vi sia, nel mondo, il male?
Noè, che cammina con Dio
L’autore sacro, nell’esempio di Noè, ci offre un uomo di Dio, che si pone in ascolto attivo della Parola che gli è rivolta:
«Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio». (Gn 6,9)
Nella sintesi di questa frase, troviamo la risposta a tanti nostri interrogativi. Come, ad esempio: cosa fare, quando il male dilaga? Il “contagio” è inevitabile? Oppure, è possibile opporsi? Come?
Noè “cammina con Dio”, per poter sfuggire al contagio mortifero di un male che si espande in modo epidemico. Nel linguaggio ebraico della Scrittura, il camminare ha sempre una connotazione etica. Andare dritti e non fare deviazioni, comporta rettitudine; al contrario, l’incostanza nel cammino denota lassismo.
Il cammino dell’uomo
Perché proprio camminare? Innanzitutto, si tratta di un’attività con una direzione. Certo, puoi andare a zonzo; ma, anche in quel caso, alla fine della peregrinazione, ci sarà un punto di partenza, un percorso, più o meno regolare ed una meta. Secondariamente, è un’attività inclusiva, che coinvolge tutto il nostro essere: c’è lo sforzo dei piedi, di tutte le articolazioni degli arti inferiori, certo, ma non solo; anche il tronco e gli arti superiori contribuiscono a dare equilibrio, il sistema circolatorio è imprescindibile e curare la respirazione può costituire una grande differenza tra una passeggiata rilassata e una fatica ingiustificata se non dalla mancanza della giusta tecnica. Il camminare ci coinvolge, con il suo dinamismo: ogni passo è una scoperta, persino quando il tragitto è noto, perché, con il nostro incedere, l’orizzonte si apre, consentendoci di scoprire, di volta in volta, spiragli nuovi anche di panorami noti.
Cammino e interiorità
Camminare si rivolge, inoltre alla nostra interiorità e la interpella; procedere nel nostro percorso ci fa interrogare sul cammino già svolto, su quello che ci sta innanzi e sui compagni di cammino che hanno incrociato il loro con il nostro, almeno per un tratto, ma poi hanno cambiato. Anche quando in compagnia, camminare lascia emergere la nostra interiorità, in modo spontaneo, quasi senza sforzo. Ecco perché camminare con Dio ci richiama l’intimità e l’ascolto reciproci, più ancora che la parola. Del resto, chiunque ami camminare sa che i migliori compagni di cammino sono quelli con cui è gradevole e ospitale più il silenzio che la parola.
Lot e la sua gente
Nel Vangelo, pochi versetti dopo[3], il secondo richiamo veterotestamentario è costituito dalla storia di Lot. Questo accostamento ci richiama a non fermarci solo alla sorte del giusto (come riflettiamo, in particolare, con Noè), ma anche quale sia il ruolo del giusto nel consesso in cui vive (pensiamo alla storia di Lot). Abramo domanda pietà per Sodoma. Abramo intercede per la città e “contratta”. Sarebbe bastati dieci giusti. C’era solo Lot, con la sua famiglia. Per questo, è lui l’unico superstite. Ma, in fondo, guardando la situazione da un altro punto di vista, significa anche che sarebbe bastata una manciata di persone in più, perché tutta la città si salvasse. Ogni singola vita vale. Ogni goccia di sangue, sudore, fatica è contata. “Dio non dimentica” non è una minaccia, ma la garanzia, che ha il nostro nome, la nostra storia, il nostro volto sul «palmo della sua mano»[4].
Camminare “secondo lo spirito”
Anche l’Apostolo, del resto, ci esorta a “camminare secondo lo Spirito”, così da non seguire i “desideri della carne”[5]. Vi fa seguito un lungo elenco di quali siano. Più importanti, a mio avviso (perché volgersi al positivo non fa disperdere energie), sono i frutti dello Spirito: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”[6]. Individuarli, significa comprendere che c’è un’azione dello Spirito in atto.
Significativa è soprattutto la chiosa: «contro queste cose non c’è Legge»[7]. Il rischio è lo stesso delle parole più famose di s. Agostino (“Ama e fa’ ciò che vuoi”): il fraintendimento.
Fraintendimento doppio e semplice
Così come l’ecclesiastico non intendeva incentivare lascivia o lassismo, così la lettera ai Galati non intende inneggiare alla totale anarchia. In entrambi i casi, si tratta di andare oltre. S. Agostino così specifica: «se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni perdona per amore. Sia in te la sorgente dell’amore, perché da questa radice non ne può uscire che il bene»[8]. Lungi dall’accondiscendere ad un amore frainteso con l’istintualità, il santo d’Ippona pone l’amore come lanterna che guida le scelte della vita: parlare o tacere, in sé, non sono atti d’amore; possono essere se è l’amore gratuito e disinteressato a indicare, alternativamente, l’uno, o l’altro, come la scelta più opportuna. L’amore è “compimento della legge”[9], perché la oltrepassa, non perché la schivi. Una differenza fondamentale!
Camminare insieme, oltre la legge
Per le cose dello spirito non c’è legge, perché oltrepassano le leggi: chiedono di perdonare, oltre la ragionevolezza, di sperare contro ogni speranza, di perseverare al di là del fallimento. Di credere nella promessa di Dio che, dopo averne riannodato i fili con Noè, si è compiuta in Cristo: “uomo, non ti lascio solo: camminiamo insieme!”
Rif. Letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo Pentecoste : Genesi 6, 1-22; Gal 5, 16-25; Lc 17, 26-33
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[1] Gn 6, 5-6
[2] Gb 5, 18
[3] Lc 17, 28-30
[4] Is 49, 16
[5] Gal 5,16
[6] Gal 5, 22
[7] Gal 5,23
[8] A. AGOSTINO, Commento alla lettera di Giovanni 7, 8
[9] Rm 13, 10
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